Il territorio De André è probabilmente il più minato del cantautorato italiano, la morte l’ha tolto da questo mondo troppo presto negandoci chissà quanti altri capolavori avrebbe certamente consegnato alla storia, ma d’altra parte ha fatto si che la valutazione del suo lavoro, mai così unanimamente leggendaria mentre era in vita (anzi, per gli smemorati, tutt’altro), subisse un doveroso e giusto revisionismo che lo ha consegnato, oggi, di fatto, al mito. De André, insomma, non si tocca, perché come De André c’è solo De André.
Apriti cielo poi, se a toccarlo sono questi ragazzacci dell’indie; che ne sanno loro di chi era De André, di cosa rappresentava, della sua musica, della musica in generale, del mondo, della vita…insomma, qualsiasi cosa abbiano mai fatto e faranno, resteranno sempre artisti di serie B appartenenti ad un mondo della musica irrimediabilmente di serie B. L’analisi appena compiuta è chiaramente provocatoria, strappa semplicemente una risata il fatto che qualcuno appartenente alla tribù dei “ma che ne sanno…” duri e puri, mentre noi parliamo, l’abbia pensato davvero venendo a conoscenza del progetto Faber Nostrum, ovvero il disco Tributo coordinato da Massimo Bonelli di iCompany e condiviso da Fondazione Fabrizio De André Onlus, disponibile da oggi su tutte le piattaforme musicali; un disco in cui gli indie cantano De André. Quindici canzoni, tra grandi classici e pezzi meno mainstream, del cantautore genovese rivisti da altrettante realtà musicali, tra le principali di quella che è a tutti gli effetti la prima generazione di questa nuova fase internettiana della storia della discografia italiana.
Un progetto ottimamente riuscito, bisogna dirlo, intanto per un evidente e vibrante rispetto degli artisti coinvolti nei confronti della poetica quasi inarrivabile di Faber, e poi soprattutto, ed è giunto il momento che la tribù di cui sopra se ne renda conto, trattasi di artisti preparati che sanno perfettamente quello che stanno facendo e lo fanno proprio bene. È il caso, per esempio, di Willie Peyote che declina “Il Bombarolo” in un rap generazionale di rarissma fattura, quasi una tesi di difesa per un fregato ed emarginato dal sistema, un bombarolo 2.0 di De André, meravigliosamente rabbioso e lucido, furibondo e chiarificatore.
Notevole la rivisitazione di Cimini insieme a Lo Stato Sociale di “Canzone per l’estate”, che riportano il pezzo, ingiustamente non tra i più conosciuti, ai giorni nostri grazie ad un sound moderno che non affossa, anzi, al contrario, esalta le parole di De André. Nota di merito anche per Colapesce e Motta che reinterpretano rispettivamente due classiconi come “Canzone dell’amore perduto” e “Verranno a chiederti del nostro amore”, nel loro caso le sperimentazioni sono ridotte quasi all’osso, non hanno forzato la mano, ma semplicemente cantato, con le loro voci così caratteristiche e interessanti che li distinguono, questi due capolavori; lavoro pulito, corretto, da mestieranti veri, tant’è che entrambe le canzoni vengono fuori con grande potenza e senza sbavature né inutili preziosismi.
Vincono anche i Canova che scelgono di registrare “Il suonatore Jones” riuscendo nell’epica impresa di farla propria senza imporre la propria presenza, rispettosi al cospetto del poeta De André. Così come La Municipal, una delle nuove realtà cantautoriali più interessanti, che si cimenta ne “La canzone di Marinella”, restituendo perfettamente il mood nostalgico e letterario del brano, aggiungendo come nota a margine un umile e ricercato arricchimento della parte strumentale che si impone anche grazie alle voci dei fratelli Tundo, che si incastrano così bene tra di loro e riescono a risultare sempre così naturalmente evocative.
Azzardano di più i genovesi Ex-Otago che propongono una versione da vera band e al tempo stesso vagamente minimalista di “Amore che vieni, amore che vai”, una scelta evidentemente quella di provare a trasformare il pezzo in un indie/blues che alla fine non offende nessuno, anzi, risulta decisamente divertente all’ascolto. Ottimamente riuscita anche “Hotel Supramonte” cantata dagli Zen Circus, grazie alla voce espressiva, come ce ne sono poche in Italia, di Andrea Appino; la sua interpretazione è semplicemente emozionante, niente da dire, una canzone che si beve.
Geniale l’idea di affidare “Fiume Sand Creek” ai Pinguini Tattici Nucleari, una delle band più preparate e genialoidi di questa nuova infornata discografica, la versione del pezzo è esattamente quello che dovrebbe essere: la loro visione della canzone cui contorni sono stati ridisegnati sul loro sound, che è chiaramente molto attuale e molto efficace.
Chi da Faber Nostrum ne esce da vincitore è Artù, il suo “Cantico dei drogati” è così personale, il suo canto così intenso, così straziante; una versione del pezzo distante da quella di De André, la più distante forse tra tutte quelle proposte nell’album, eppure, anche grazie ovviamente alla poetica perfetta del maestro Faber, forse quella che più di tutte le altre riacchiappa l’essenza del brano, quella disperazione commovente che ci fa scendere il cuore nello stomaco e una lacrima dagli occhi. Bravissimo.
Nota di merito anche per i Ministri che riescono a cogliere e rivisitare perfettamente la natura ballad di “Inverno” e per Vasco Brondi, che in chiusura del disco prende “Smisurata preghiera” e la riporta nel suo mondo etereo e surreale. La rete al momento resta divisa sul risultato del disco, che invece potrebbe rappresentare un importante passaggio di testimone all’interno del mondo della musica cantautoriale italiana.
Il primo pensiero che viene in mente infatti alla fine dell’ascolto è “Chissà cosa ne avrebbe pensato De André”, dopo aver assorbito, questo è certo, l’idea di essere un artista “omaggiato”, “tributato”, e questa domanda rischia di restare senza risposta. Il secondo pensiero, probabilmente più corretto, riguarda il fatto che, come grida al mondo da anni Red Ronnie, se De André avesse scritto gli stessi identici capolavori nei primi dieci anni del nuovo millennio, noi oggi probabilmente non sapremmo nemmeno chi sia De André, che poco o niente avrebbe combinato in una discografia così tanto dipendente dalle performance televisive.
Sarebbe uscito fuori invece perfettamente adesso, sarebbe un’indie De André, proprio così, sarebbe uno di questi ragazzacci e, come loro, con il loro linguaggio, con la loro personalità, avrebbe raccontato anche lui la sua realtà; forse per questo c’è più sintonia tra Fabrizio De André e gli indie di quanta non ce ne sia mai stata tra Fabrizio De André e una generazione di cantantucoli da musica leggera venuti fuori tra la fine degli anni ’90 e i primi dieci/quindici anni del 2000. E se davvero la musica italiana si sente orfana, a ben ragione, così com’è, di un cantautorato di un certo livello, è lì che deve infilare entrambe le mani, non nelle fabbriche di figurine dei talent, dove l’eccezione è chi ha qualcosa da dire, per il resto solo l’esternazione del nulla cosmico contemporaneo.
Non si sa se tra trenta/quarant’anni ci saranno nuove generazioni di artisti che omaggeranno Motta o Colapesce o Vasco Brondi così come loro oggi omaggiano De André, ma sappiamo che l’orizzonte da scrutare è certamente quello. In questo senso Faber Nostrum, a Faber, gli avrebbe certamente fatto scappare un sorriso e un brindisi, alla faccia di chi ingozza lo share e svuota di pubblico i live, in onore di tutti quelli che hanno sputato sangue nei palchi dei club di periferia, conquistandosi il pubblico faccia a faccia, con uno strumento in mano e tanti sacrifici, e ora si prendono tutto il successo che gli è dovuto.