Elezioni europee: manuale d’uso contro la disinformazione nell’era digitale

Gli americani hanno aperto gli occhi in occasione dell’elezione del presidente Trump nel 2016. Ugualmente è avvenuto per gli europei con il referendum sulla Brexit. In entrambi casi, campagne di disinformazione, propaganda mirata e fake news hanno giocato un ruolo non trascurabile nelle scelte finali

Elezioni europee: manuale d’uso contro la disinformazione nell’era digitale
European Union 2018 – EP/Jan Van De Vel

Il Parlamento Europeo non dorme sonni tranquilli. Le elezioni di maggio sono ormai dietro l’angolo, mentre la disinformazione è diventata un fenomeno globale che preoccupa, chi più chi meno, tutti gli Stati. Non è una preoccupazione da poco: in gioco ci sono la libera formazione dell’opinione pubblica e la tenuta del processo democratico.

Gli americani hanno aperto gli occhi sull’influenza delle grandi piattaforme online nella formazione dell’opinione pubblica in occasione dell’elezione del presidente Trump nel 2016. Ugualmente è avvenuto per gli europei con il referendum sulla Brexit, che si è svolto nello stesso anno. È ormai accertato che in entrambi casi, campagne di disinformazione, propaganda mirata e fake news, abbiano giocato un ruolo non trascurabile nelle scelte finali.

I sospetti sono diventati certezze con lo scandalo Cambridge Analytica.

Nel marzo 2018, una serie di inchieste giornalistiche ha rivelato che i dati di 87 milioni di americani utilizzatori di Facebook – inclusi quelli di 2,7 milioni di cittadini europei – erano stati impropriamente condivisi con la società di consulenza politica Cambridge Analytica, che poi li ha usati per profilare gli utenti e condizionare i voti negli Stati Uniti e nel Regno Unito.

In seguito allo scandalo, Facebook ha ammesso che i post sostenuti dalla Russia – principale indiziato di collegamenti con Cambridge Analytica nella propaganda contro Hillary Clinton e a favore di Trump – avevano raggiunto 126 milioni di americani durante le elezioni presidenziali.

Come riporta un documento del Parlamento Europeo, “Online disinformation and the EU’s response”, “Nel novembre 2017, il primo ministro britannico Theresa May ha accusato la Russia di aver militarizzato l’informazione, mentre un rapporto del febbraio 2018 dell’agenzia di comunicazioni britannica 89up.org ha rivelato un’interferenza dei social media pro-Brexit legati alla Russia per un valore fino a 4.6 milioni di euro”.  

Il Cremlino ha sempre respinto le accuse di interferenza, sia nella campagna elettorale Usa, sia nel referendum britannico sull’uscita del Paese dalla Ue.

L’insieme di tutte queste circostanze, unitamente al vento sovranista che attraversa l’Europa, hanno convinto il Parlamento Europeo a lanciare l’allarme: le prossime elezioni europee, che si terranno dal 23 al 26 maggio 2019, potrebbero essere il prossimo obiettivo di un’opera di disinformazione, orchestrata anche con la complicità del Cremlino, volta a condizionare il voto.

Per fare fronte a quello che appare più di un sospetto, il Parlamento ha messo in piedi una speciale unità il cui compito è combattere le fake news, smascherare la propaganda e la disinformazione. Il gruppo di esperti, radunati dalla Commissione europea nell’ottobre 2017 (High Level Group), incluso un codice di comportamento per le piattaforme online e i social network che richiede, fra l’altro, la trasparenza nella spiegazione di come funzionano gli algoritmi che selezionano le news e la garanzia di visibilità e accesso alle notizie verificate e di qualità verso gli utenti.

Ma la ricerca di un codice di comportamento condiviso con le grandi piattaforme digitali è solo una parte del problema nella difficile battaglia contro la disinformazione. Anche il giornalismo è chiamato a fare la sua parte per smascherare la menzogna ovunque si annidi.  La diffusione deliberata di false informazioni contro gli avversari politici è stata il focus di “Fighting Disinformation in the Digital age”,  seminario organizzato dal Parlamento Europeo che ha racconto intorno al tavolo esperti e giornalisti di 25 Paesi Ue.  

Le campagne di disinformazione, la propaganda ostile, la diffusione di visioni distorte della realtà, che generano paura e incertezza tra i cittadini, sono ormai considerate un rischio reale per le democrazie. “La disinformazione – ha ammesso Pavel Telička, membro del Parlamento Europeo – è penetrata come un virus nel nostro ambiente, nei media come nella politica”.

Quattro tendenze, che in parte possono essere ascritte anche alla responsabilità giornalistica, sembrano caratterizzare questa era della “post verità”: 

  • una crescente considerazione di “sospetto” verso i fatti;
  • la distinzione sempre più sfuocata tra opinioni e fatti;
  • la crescente influenza dell’opinione sui fatti;
  • il declino della fiducia nei confronti delle fonti di informazione professionali.

Se il giornalismo vuole giocare la propria parte in questa battaglia contro la menzogna imperante non può che ripartire dai fondamentali. Il fact-checking non deve e non può essere una medaglia da appendersi al petto o, peggio, una foglia di fico dietro la quale nascondere le proprie derive professionali. Verifica e fact-checking devono essere parte del processo. Se non riscopriamo queste pratiche, che pure dovrebbero fare parte dell’abc della professione, diventa poi difficile pretendere che gli e-lettori sviluppino sensibilità per le fonti verificate a scapito di quelle che non lo sono.

E la verifica non vale più solo per ciò che pubblicano le testate. Dobbiamo interrogarci su quali siano i processi che possiamo mettere in campo per verificare le informazioni digitali. Tutte, anche quelle che circolano in rete e che forse non raggiungeranno mai i mainstream media, ma che hanno dimostrato di poter avere una certa influenza sulla formazione dell’opinione pubblica.

I fatti contano, la verità conta e a questi dobbiamo volgere l’attenzione se vogliamo che i lettori tornino a ritenerci credibili. Verificare una notizia che viene da una singola fonte dovrebbe essere la regola e non l’eccezione.

Torniamo alle regole del giornalismo. Prima di utilizzare un contenuto trovato online cosa dovremmo fare? Ad esempio applicare le antiche regole delle 5W dello stile giornalistico anglosassone: Chi? Cosa? Quando? Dove? Perché?

Cominciamo con il chiederci chi ha caricato il contenuto. E se è il contenuto originale. Perché in caso contrario la verifica potrebbe non avere senso. Indaghiamo usando gli strumenti e i software che si trovano online (qui trovate un’ampia lista approntata da FirstDraftNews.org) per trovare conferme sulla localizzazione del post (da dove arriva?), sulla data e sull’orario di pubblicazione (quando è stato prodotto?), senza dimenticare di interrogarci sulla motivazione: perché è stato catturato? (Why?).

E potrebbe non bastare. Allora occorre approfondire con valutazioni mirate su chi ha caricato il contenuto: ha una motivazione finanziaria o politica? Ha altri account online? Per saperne di più potrebbe essere necessario combinare le ricerche ad esempio incrociando il nome con le foto dei vari profili, con la posizione professionale, la scuola, con le connessioni familiari, gli amici, i colleghi.

È vero, potrebbe richiedere tempo. Tanto tempo. Ma è giunto il momento di essere creativi e testardi. È giunto il momento di preoccuparci meno di arrivare primi con la pubblicazione di una notizia e di preoccuparci di più che la stessa sia vera, controllata e verificata. È questo il lavoro che dobbiamo fare per restituire ai lettori, che svolgendo altri lavori non hanno tempo da dedicare alle verifiche, una informazione corretta della quale possano fidarsi. Non esistono scorciatoie per superare l’era della post verità. Se veramente vogliamo che il giornalismo si riprenda il ruolo che gli spetta nella società, non possiamo che tornare alle regole di una informazione corretta: smascherare la menzogna, sempre, perché i fatti contano, la verità conta. 



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