Un libro inchiesta pone nuove domande sulla morte dell'anarchico Pinelli
Di cosa parla “Pinelli. L’innocente che cadde giù”, un libro uscito nelle librerie il 30 maggio scorso, scritto dal giornalista Paolo Brogi

“Dicembre 1969: chi c’era a Milano in questura in quei giorni in cui è morto Giuseppe Pinelli? Chi oltre i 23 funzionari censiti dal Pm Giovanni Caizzi, nella prima inchiesta sulla morte del ferroviere anarchico caduto dal quarto piano della Questura la notte tra il 15 e il 16 dicembre? Chi ha prodotto il teorema degli anarchici responsabili della strage di Piazza Fontana?”. Se lo chiede, nel suo ultimo libro, “Pinelli. L’innocente che cadde giù” (edizioni Castelvecchi), uscito nelle librerie il 30 maggio scorso, il giornalista Paolo Brogi. Tra i suoi ultimi libri “La lunga notte dei Mille”, “Eroi e poveri diavoli della Grande Guerra”, “68, ce n’est qu’un début”.
La morte di Pinelli avvenuta 50 anni fa - nonostante le indagini si conclusero attribuendo il decesso a un malore che avrebbe causato la caduta accidentale del ferroviere anarchico dalla finestra della questura di Milano – è sempre rimasta un mistero.
L'ombra degli 'Affari riservati'
“Chi si era insediato da ‘padrone’ nelle stanze dell’Ufficio Politico della Questura di Milano, peraltro luogo relativamente piccolo? – si chiede ancora Brogi - Come hanno fatto due giudici istruttori, prima Amati e poi D’Ambrosio, a non sfiorare minimamente il nutrito esercito di funzionari e sottufficiali del servizio segreto “civile” del Viminale, gli Affari Riservati, calati da Roma a Milano dopo il 12 dicembre e a non “sentire” nessuno di loro?”
Per il giornalista d’inchiesta “I fantasmi della Questura di Milano: sono senz’altro gli agenti degli Affari Riservati, oltre una dozzina, giunti da Roma il 13 dicembre guidati dal braccio destro di Federico Umberto D’Amato, il capo di fatto della struttura, quel Silvano Russomanno che come emerge dagli atti giudiziari degli anni ’90 si era insediato direttamente a una scrivania nella stanza del capo dell’Ufficio Politico Antonino Allegra, suo amico al punto da farsi ospitare in qualche occasione a casa sua a Milano durante le sue trasferte e in particolare nei giorni in cui viene sentito dai Pm milanesi nel 1997”.
Secondo la ricostruzione di Paolo Brogi, basata su atti giudiziari, fin da subito le indagini sulla strage di Piazza Fontana del 12 dicembre 1969 viene indirizzata sulla pista anarchica su input dei servizi segreti. E a supporto della sua tesi cita le affermazioni del giudice istruttore Guido Salvini che nell’indagine sulla strage di piazza fontana - conclusasi con il rinvio a giudizio di alcuni noti fascisti di Ordine Nuovo.
“Un fatto è certo: gli Affari Riservati sono stati responsabili di aver messo in atto un meccanismo teso a indirizzare in modo esclusivo e preordinato le indagini verso gli anarchici”.
Gli esponenti di Ordine Nuovo escono definitivamente dal processo con l’assoluzione della Cassazione, che però nelle motivazioni scriverà: la strage di piazza Fontana fu realizzata dalla cellula eversiva di Ordine Nuovo capitanata da Franco Freda e Giovanni Ventura, non più processabili in quanto assolti con sentenza definitiva nel 1987. Sebbene gli ordinovisti indicati siano quindi considerati gli ispiratori ideologici, non è mai stato mai individuato a livello giudiziario l'esecutore materiale, ossia l'uomo che pose personalmente la valigia con la bomba.
E il coinvolgimento di Pinelli nella strage di Piazza Fontana si inquadra in questo depistaggio e nella ormai arcinota strategia della tensione ordita proprio in quegli anni.
L'allarme dei giornali inglesi
“Cinque giorni prima la strage di Piazza Fontana – scrive Brogi - i giornali inglesi lanciarono un allarme che restò inascoltato. Nel mirino gli attentati di matrice “greca” che fascisti italiani e greci avevano messo a segno in Italia con una strategia golpista. Il 6 dicembre del 1969 il “Guardian” era uscito con un reportage investigativo firmato da Leslie Finer. Lo stesso giorno anche l’ “Observer” domenicale aveva fatto importanti rivelazioni sulle bombe del 25 aprile”.
Il graffio del brigadiere
Ma tornando alla morte di Pinelli, cosa accadde realmente negli uffici della questura la notte tra il 15 e il 16 dicembre 1969?
“Il 27 ottobre 1975 – si legge nel libro – il Giudice Istruttore del Tribunale di Milano Gerardo D’Ambrosio deposita la sua nuova sentenza, la seconda dopo quella del 1970, sulla morte di Giuseppe Pinelli. Archivia anche lui. Morte dovuta a un malore. Ma nelle 54 pagine della sua sentenza D’Ambrosio dimentica però un graffio, quello del brigadiere Panessa. Oltre un anno prima, il 26 giugno del 1974, nel corso della sua lunga istruttoria durata quattro anni il Giudice Istruttore ha infatti sentito per una nuova volta il poliziotto che quella sera era secondo i vari resoconti, al netto delle tante e troppe difformità che si sono accumulate sul tavolo del magistrato, il più vicino a Giuseppe Pinelli al momento della caduta".
"Il brigadiere Vito Panessa dell’Ufficio Politico della Questura di Milano, uomo robusto e rimasto celebre per i suoi continui quanto imbarazzanti aggiustamenti su vari momenti di quella sera, a partire dalla frase trabocchetto “Valpreda ha parlato”, rende una dichiarazione a sorpresa al giudice istruttore Gerardo D’Ambrosio. Che cosa succede dunque il 26 giugno del ’74? Le domande, da quel dicembre del 1969, sono sempre le stesse e Panessa a un certo punto dice: ‘Non posso precisare se il Pinelli dopo aver aperto il battente abbia fatto qualche passo indietro per prendere la rincorsa. Posso solo dire che tutto si svolse molto velocemente. Io infatti appena mi accorsi (segue una cancellatura di una riga) del gesto di Pinelli mi slanciai verso di lui per afferrarlo, ma riuscii solo a sfiorargli, credo, i piedi. Mi è stato recentemente ricordato dal Mainardi che io riportai un graffio a un dito della mano Non ricordo se il destro o il sinistro. Quando mi slanciai verso Pinelli egli era già al di là della ringhiera, per una buona parte. Si buttò oltre la ringhiera con uno sbalzo e tenendo la testa in avanti’.
Paolo Brogi commenta: “Nessuno chiede ragguagli a Panessa su questo improvviso riemergere di un graffio mai comunicato fino a quel momento a qualcuno”.
“Il graffio viene liquidato dunque come irrilevante”
“Ma in ogni caso perché neanche una domanda, un minimo di approfondimento? E perché poi tutto questo sparisce nelle sua sentenza di archiviazione? Peccato che D’Ambrosio, deceduto nel frattempo, non possa oggi risponderci. Ci resta però questo verbale che l’Archivio della Casa della Memoria di Brescia ha digitalizzato con tutti i faldoni del processo Calabresi - Lotta continua, forniti dall’avvocato Marcello Gentili. In questo modo questi documenti si sono salvati dal macero. E sono ancora lì a disposizione di tutti. Questo verbale di Panessa era passato finora inosservato, a quanto pare. Però è lì e chiede ancora una spiegazione”.
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