È tornato il delitto d'onore?

Due sentenze che hanno provocato un’ondata di dichiarazioni polemiche e prese di posizioni molto dure, in tema di femmincidi. Perché le parole, talvolta, pesano più delle condanne

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Foto: Marcos Welsh/Agf 
Violenza sessuale, abusi 

“Agì in preda alla delusione”, per i continui tradimenti e riappacificazioni della moglie. Per questi motivi, Javier Napoleon Pareja Gamboa ha ucciso Coello Reyes, con una coltellata al petto al culmine di una lite lo scorso anno a Genova. È stato condannato a 16 anni con il rito abbreviato il 6 dicembre scorso. Per il giudice dell’udienza preliminare, Gamboa sarebbe stato mosso “da un misto di rabbia e disperazione, profonda delusione e risentimento; ha agito sotto la spinta di uno stato d’animo molto intenso, non pretestuoso, né umanamente del tutto incomprensibile. Per il magistrato “l’uomo non ha agito sotto la spinta della gelosia ma come reazione al comportamento della donna, del tutto incoerente e contradditorio, che l’ha illuso e disilluso allo stesso tempo”.

A Bologna invece la Corte d’Assise d’Appello ha dimezzato la condanna, da 30 a 16 anni, a Michele Castaldo, 57 anni, in carcere per aver strangolato il 5 ottobre 2016 la sua compagna, Olga Mattei con la quale aveva una relazione da un mese. Per il perito psichiatra l’imputato ha avuto una «soverchiante tempesta emotiva e passionale», “idonea a influire sulla misura della responsabilità penale”. 

Due sentenze che hanno provocato un’ondata di dichiarazioni polemiche e prese di posizioni molto dure, anche da parte del presidente del Consiglio, Giuseppe Conte che su Facebook ha scritto: "Dobbiamo chiarire, con forza, che nessuna reazione emotiva, nessun sentimento, pur intenso può giustificare o attenuare la gravità di un femminicidio”.

Critiche e prese di posizione che hanno poi innescato la replica dell’Associazione nazionale magistrati, attraverso il suo segretario Alcide Maritati: "Le sentenze si possono sempre criticare ma se si estrapolano frasi messe in circolazione sui media o sui social in maniera semplicistica questo scatena un dibattito non consapevole, che non parte dalla lettura del provvedimento giudiziario ma, scandalisticamente, estrapola una frase dal contesto logico, giuridico o argomentativo che invece andrebbe conosciuto".    

Qualcuno ha anche ipotizzato che di fatto “è stato ripristinato il delitto d’onore”, previsto dall’art. 587 del Codice Penale (poi abrogato nell’agosto del 1981) che recitava: “Chiunque cagiona la morte del coniuge, della figlia o della sorella, nell'atto in cui ne scopre la illegittima relazione carnale e nello stato d'ira determinato dall'offesa recata all'onor suo o della famiglia, è punito con la reclusione da tre a sette anni. Alla stessa pena soggiace chi, nelle dette circostanze, cagiona la morte della persona che sia in illegittima relazione carnale col coniuge, con la figlia o con la sorella”.

Ma non è così, non ci troviamo di fronte al ripristino, di fatto, del “Delitto d’onore”. 

Posso anche condividere il ragionamento di Maritati, ma a mio giudizio a sollevare le polemiche non sono state tanto l’entità delle condanne (ritenute forse troppo lievi) quanto le parole utilizzate dai magistrati per motivare le loro sentenze. Già perché non è la prima volta che per un omicidio volontario si commina una condanna a 15 o 16 anni di reclusione. Il giudice infatti, nell’applicare una legge si deve sempre attenere al Codice di Procedura Penale, tenendo conto delle attenuanti generiche, del fatto che l’imputato era incensurato, del ricorso al giudizio abbreviato (che prevede lo sconto di un terzo della pena inflitta) e delle valutazioni dei periti psichiatrici (laddove ci si trovi di fronte al dubbio se l’omicida abbia agito nel pieno delle sue facoltà mentali o meno). 

E allora ci si chiederà, cosa ha scatenato il coro di critiche alle due sentenze? A mio giudizio, sono le frasi come “Agì in preda alla delusione”, o una «soverchiante tempesta emotiva e passionale», “idonea a influire sulla misura della responsabilità penale” che hanno provocato le dure reazioni alle sentenze, tenendo anche conto che ci troviamo di fronte a due omicidi in cui si dovrebbe applicare l’aggravante del femminicidio, introdotta nel 2013. Non solo, La violenza nelle mura domestiche è ormai divenuta un fenomeno drammatico sempre più diffuso e quindi non ci si può permettere errori sia da parte dei magistrati chiamati a giudicare (e poi spiegare nelle sentenze) tali fatti, sia da parte di noi giornalisti (che non dobbiamo limitarci ad estrapolare solo la frase più ad effetto), sia da parte dei politici che spesso non perdono l’occasione di esprimere giudizi tanto per cavalcare l’ondata di indignazione, magari per acquisire qualche consenso o voto in più.  

Insomma forse servirebbe più professionalità da parte di tutti: magistrati, giornalisti per primi. 

 



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