Perché andare al Maxxi a vedere la mostra di Piero Gilardi

All’inizio furono i Tappeti-natura. Arazzi in poliuretano espanso dove pietre, prati, mare, uccelli sono da ammirare più che da calpestare. Dove la bellezza della natura è quasi un ricordo da mettere sotto teca, dopo essere stata sotto i piedi, in un ambiente urbanizzato e artificiale. Sono i primi anni Sessanta, la civiltà contadina cantata da Pasolini è alle corde e la poetica di Piero Gilardi è già tutta in nuce su quei tappeti coloratissimi che rimandano a un mondo perduto.
Il torinese Gilardi, nato nel 1942, nel bel mezzo d’una guerra mondiale, inizia così a raccontare la follia del mondo antropizzato, fatto dall’uomo ma non più a misura d’uomo. Da lì al concetto d’Arte abitabile il passo è breve, conseguenziale. Tronchi caduti su cui sedersi ascoltando i rumori della foresta. Alberi squarciati dove entrare per immergersi in un bagno di lucciole fluorescenti. Ossami di lucertoloni che schizzano dal suolo cretoso al calcarne le impronte, ancestrali antenati redivivi. Separati dai vivi da una lastra di vetro, riflesso dell’umano in sé.
Gilardi è questo e assai più, e “Nature forever”, l’antologica che il Maxxi di Roma gli dedica fino al 15 ottobre, l’illustra bene. L’idea d’una natura non rimpianta ma da vivere, con rigore intellettuale. Opere dove immergersi, dove l’artificio svela il naturale rivelando nuovi orizzonti e sensibilità. Ed è un piacere dei sensi calarsi coi pargoli in Ipogea, cavità tellurica lumata da bagliori lavici e dalla torcia che l’assistente vi porge. O soffiare nel cono per dare vita a Inverosimile, una vigna che s’anima di vita e di suoni parodiando l’alba d’un giorno qualunque e la sarabanda di luci e colori del creato, messo in crisi dall’uomo.
Non c’è nostalgia, né mera pedagogia in Gilardi. Piuttosto, un mettere in gioco sé stessi, le contraddizioni dell’io e del mondo. Come nelle opere che ripercorrono il suo tragitto politico, la sua militanza. Ai movimenti di contropotere di piazza l’artista regala, per un trentennio, il suo impegno. I mascheroni in gommapiuma di Agnelli, Andreotti, Berlusconi e Marchionne, come le mostruose pannocchie Ogm e le talpe anti Tav sono lì, tra le volte del Museo del XXI secolo come allora indosso ai manifestanti, a trasformare in rito carnacialesco e socializzante moti di protesta e guerriglia urbana.
Il monumentale Masso della crisi è lì, lo puoi toccare con mano se non smuovere, approdo iconico del nostro tempo dopo essere stato trascinato in strada dai povericristi di cui la crisi di sistema continua a fare mattanza. Fuori dalle mura, ma non dalle lotte e dalle sfide dell’oggi, è ancora Gilardi. È a Torino che bisogna andare, al Pav (Padiglione d’arte vivente) che l’artista ha messo in piedi, anzi sotterra, in uno spezzone di terreno abbandonato in periferia, con un pool di bei cervelli. Un progetto culturale e un’opera collettiva – come, da sempre, è quella dell’artista – che mette insieme ecologia e tecnologia, estetica e inclusione sociale. «Sono tempi duri, il mondo è in crisi per via dello sviluppo diseguale e gli artisti devono cercare di opporsi, di intervenire», ha scritto Hou Hanru, direttore del Maxxi, presentando l’esposizione curata con Bartolomeo Pietromarchi e Marco Scotini. Un imperativo che Gilardi ha fatto suo da sempre.