Bologna riscopre le tele di Salvatore Nocera

Per larga parte della sua vita dipinse ogni giorno, per altrettanta non mise mano ai pennelli. Per lunga parte visse nello studio parigino di Montmartre, nel cuore dell’arte mondiale del ‘900. Per buona parte invece a Bologna, praticamente da eremita nella propria città, alieno anche a sé stesso. Non è semplice il percorso umano e artistico di Salvatore Nocera, e la monografica che la città natale gli dedica a quasi un decennio dalla morte vuole, quantomeno, rendere ragione all’opera e al vissuto di un artista eclettico e non certo noto ai più. Un enfant prodige, secondo la definizione d’uno dei suoi primi estimatori e critici, che la vita ha a un certo punto rovesciato e gettato in un canto, come un calzino, ma senza poterne cassare del tutto il segno.
La vita, anzitutto. Nato sul finire degli anni Venti da una locandiera bolognese e da un commerciante di stoffe siciliano, Nocera s’avvicina alla pittura e alla scultura da autodidatta, pur avendo frequentato l’Accademia di belle arti cittadina. Negli anni ‘60 e ‘70 è a Parigi, dove espone con una certa frequenza, da dove rientrerà alla fine del decennio, scosso da un matrimonio finito male e da un travaglio interiore da cui faticherà a riprendersi.
Quando la sua pittura fortemente materica si sposa agli assemblaggi di foto e carte d’ogni uso e tipo, spesso raccattate, siano assorbenti che da pacchi, cartoline o giornali. È un astrattismo ormai compiuto, denso di colori e pastose cupezze quello di Nocera a fine millennio. Assai distante dai primordi che avevano precocemente affascinato critici di vaglia, dalle sue donne o meglio madonne alla Cosmè Tura poi abbandonate, come ogni paesaggio o ipotesi di realismo sociale, in favore d’una pittura astratta e disimpegnata che avrebbe trovato il suo sbocco nell’informale e nell’ultimo lavoro compiuto, di sapore testamentario. Un trittico di sei metri, degli anni ’90, che tra colpi di colore, scritte, volti cancellati, svela l’inquietudine che lo inchioda alla tela impedendogli di proseguire oltre. "Sono sempre stato in ritardo, come minimo di un decennio", diceva di sé l’artista, condensando così il proprio stato d’animo, l’insoddisfatta inquietudine che lo poneva fronte al presente con l’occhio al passato e una vena d’inadeguatezza. Una sintesi di sé fatta propria dai curatori della mostra, Elisa Del Prete e Mario Giorgi, che non a caso s’intitola Salvatore Nocera, un anno di ritardo.
Così, la settantina tra tele, scritti e disegni in mostra a Palazzo D’Accursio fino al 23 luglio hanno il pregio di disseppellire un autore e una carriera sfuggenti. Oltre a essere opere alle quali si attagliano i desiderata di Eva Picardi, figlia di Felicia Muscianesi, ultima moglie dell’artista e grazie alla quale l’evento è stato possibile. "A me piacerebbe che i quadri non stesero nelle case private, ma neanche nei musei. Dovrebbero stare negli ospedali, nelle case di cura, nelle carceri, nelle residenze per anziani. In tutti quei luoghi così tristi che con l’aggiunta di opere d’arte potrebbero diventare meno cupi", insomma. E salvarci dalla vita, con la loro ideale bellezza.