Francesco vuole cambiare radicalmente la Curia (e la Chiesa). E lo dice senza mezzi termini
Il Papa dice no al precariato nelle amministrazioni che fanno capo alla Santa Sede

C’è un’insanabile contraddizione tra il Vangelo e la temporalità della Chiesa. Papa Francesco lo sa e sta pagandone il prezzo. Ma non intende più subire. “Non voglio lavoro nero in Vaticano. È un problema di coscienza per me: non possiamo predicare la dottrina sociale e poi fare queste cose che non stanno bene”, ha detto lanciando un appello alla stabilizzazione dei precari delle varie amministrazioni che fanno capo direttamente (o indirettamente) alla Santa Sede (cioè al Papa stesso, in effetti), in occasione dello scambio degli auguri di Natale in Aula Nervi. “Aiutate i superiori a risolvere questi problemi della Santa Sede, i lavori precari che ancora ci sono in alcuni uffici”, ha chiesto ai dipendenti in nell'annuale appuntamento da lui stesso introdotto e che anche questa volta ha fatto seguito al tradizionale incontro prenatalizio con i cardinali, vescovi e prelati della Curia Romana. In entrambe le occasioni, il Pontefice ha parlato senza peli sulla lingua, manifestando grande coraggio ma anche la consapevolezza della grande difficoltà di cambiare davvero le cose (in senso evangelico) in una Curia Romana che sembra cristallizzata nella sua lontananza dal popolo di Dio e dai suoi reali problemi e aspettative, come ha dimostrato plasticamente il processo per l’appartamento del cardinale Bertone. In merito, Francesco ha fatto un esempio molto azzeccato per descrivere l’opera di purificazione e pulizia alla quale si è votato: “Fare le riforme a Roma è come pulire la Sfinge d’Egitto con uno spazzolino da denti”, ha detto recuperando l’espressione proverbiale dell’ecclesiastico belga Frederic Francois Xavier De Merode, ministro delle armi dello Stato Pontificio sotto Pio IX.
Nella Curia Romana, ha spiegato il Papa, occorre “superare quella squilibrata e degenere logica dei complotti o delle piccole cerchie”: comportamenti che, ha spiegato, “in realtà rappresentano, nonostante tutte le loro giustificazioni e buone intenzioni, un cancro che porta all’autoreferenzialità, che si infiltra anche negli organismi ecclesiastici in quanto tali, e in particolare nelle persone che vi operano”. Francesco ha usato parole molto forti per descrivere le difficoltà che è costretto a fronteggiare, denunciando un pericolo reale “quello dei traditori di fiducia o degli approfittatori della maternità della Chiesa, ossia le persone che vengono selezionate accuratamente per dare maggior vigore al corpo e alla riforma, ma, non comprendendo l’elevatezza della loro responsabilità, si lasciano corrompere dall’ambizione o dalla vanagloria e, quando vengono delicatamente allontanate, si auto-dichiarano erroneamente ‘martiri del sistema’, del ‘Papa non informato’, della ‘vecchia guardia’, invece di recitare il mea culpa”.
“Accanto a queste persone – ha aggiunto lanciando un avvertimento molto chiaro – ve ne sono poi altre che ancora operano nella Curia, alle quali si dà tutto il tempo per riprendere la giusta via, nella speranza che trovino nella pazienza della Chiesa un’opportunità per convertirsi e non per approfittarsene”. Una Curia chiusa in se stessa tradirebbe l’obbiettivo della sua esistenza e cadrebbe nell’autoreferenzialità, condannandosi all’autodistruzione”, ha ammonito subito dopo, ricordando i criteri che intende seguire per riportare alla sua essenzialità questo organismo centrale della Chiesa che non ha una funzione teologica o giurisdizionale se non come strumento di collaborazione all’azione del Papa.
La democratica funzione “diaconale” del Papa e della Curia
Bisogna notare in positivo che il Papa ha utilizzato anche un’immagine carica di speranza, quella dei diaconi istituiti dalla Chiesa primitiva per curare i poveri, quando ha descritto la funzione “ministeriale, petrina e curiale” come “di servizio” facendo ricorso all’espressione di un “primato diaconale”, già evocata da Benedetto XVI, che, ha sottolineato Francesco, “quando ne parlò, disse che sulle labbra di Gregorio questa frase non era ‘una pia formula, ma la vera manifestazione del suo modo di vivere e di agire. Egli era intimamente colpito dall’umiltà di Dio, che in Cristo si è fatto nostro servo, ci ha lavato e ci lava i piedi sporchi'”. Questo “atteggiamento diaconale deve caratterizzare – ha tenuto a chiarire Francesco – anche quanti, a vario titolo, operano nell’ambito della Curia romana la quale, come ricorda anche il Codice di Diritto Canonico, agendo nel nome e con l’autorità del Sommo Pontefice, adempie alla propria funzione per il bene e al servizio delle Chiese”.
Francesco ha voluto rimarcare che si tratta di un primato diaconale anche quello “relativo al Papa”. E ha citato “un altro antico testo”, per il quale “i diaconi sono chiamati a essere come gli occhi del vescovo”. “L’occhio guarda per trasmettere le immagini alla mente, aiutandola a prendere le decisioni e a dirigere per il bene di tutto il corpo”. Poi, in nota, Francesco ha inserito un’altra considerazione: “nel commento al Vangelo secondo Matteo di San Girolamo si registra un curioso paragone tra i cinque sensi dell’organismo umano e le vergini della parabola evangelica, che diventano stolte quando non agiscono più secondo il fine loro assegnato”, parole che gli ecclesiastici alle quali erano dirette hanno trovato sull’Osservatore Romano. Sempre in nota, e dunque a beneficio del quotidiano vaticano, che è impreziosito dal testo completo del discorso e delle note, il Papa ha citato ancora il predecessore Ratzinger per dire che “il concetto della fedeltà risulta molto impegnativo ed eloquente perchè sottolinea anche la durata nel tempo dell’impegno assunto”. E ciò, ha tenuto a sottolineare Bergoglio, “rimanda ad una virtù, la fedeltà, che, come disse Benedetto XVI, ‘esprime il legame tutto particolare che si stabilisce tra il Papa e i suoi diretti collaboratori, tanto nella Curia Romana come nelle Rappresentanze Pontificie’”.
La profezia di Malachia e di Mimmo Del Rio
“Sogno una chiesa povera e per i poveri”, disse Francesco nel primo incontro con i media tre giorni dopo l’elezione. Un sogno che a quanto pare è piuttosto lontano dall’essere realizzato… Per mancanza Il grandissimo vaticanista di Repubblica, Domenico Del Rio, purtroppo scomparso già da alcuni anni, sognava i clochard ospiti nell’Appartamento Pontificio e il Papa nella canonica di una parrocchia alla periferia di Roma. Francesco in parte lo ha accontentato, scegliendo di vivere a Santa Marta, ma quelle stanze vuote alla Terza Loggia potrebbero forse ospitare qualche decina di poveri assai meglio delle auto di monsignor Krajevski.
Su questo tema Del Rio ha scritto un piccolo romanzo “L’ ultimo di Malachia” edito da Borla, che rilegge in chiave ottimistica la famosa profezia sull’ultimo Papa che per Mimmo si riferiva all’ultimo Pontefice andato ad abitare nel Palazzo Apostolico, non all’ultimo vescovo di Roma. Si apprende subito, fin dalla prima pagina, che l’ultimo di Malachia sarà un Papa eschimese, grande e grosso e soprattutto diverso. Ma il segreto che servirà a smentire la profezia, cambiando tutte le regole del gioco, rimane in sospeso fino alla fine. Dopo molte fumate nere, durante le quali il cardinale eschimese ha avuto modo di fare amicizia con un porporato bolognese amante della buona cucina, le grandi correnti russe e americane riescono a far emergere la figura di un cardinale appartenente a una diocesi poverissima dell’India meridionale: un prelato ormai decrepito, che viene innalzato alla suprema porpora come Pontefice di transizione e che si fa chiamare Tommaso I, in onore del famoso apostolo che non voleva credere al Cristo risorto, ma poi era andato, appunto, a predicare in India. Tommaso I non fa neanche in tempo a pronunciare una parola, e viene trovato morto, inginocchiato ai piedi del letto. Il conclave riprende, e stavolta sono i cardinali italiani che, alleandosi con africani e latinoamericani, riescono a far eleggere il cardinale bolognese. Ma anche il nuovo Papa fa appena in tempo ad autonominarsi Giovanni Felice I, quando muore d’indigestione. E adesso il conclave si riapre per la terza volta e sarà per la designazione di Wajku, che avverrà nel corso di una cena fra un piccolo gruppo di potentissimi cardinali, i quali - memori della profezia di Malachia - pongono alla base del loro criterio di scelta la condizione che il Papa destinato a raggiungere il Duemila sia “alto, robusto, sobrio e buon digeritore”. La scelta cade automaticamente su Wajku, abituato a vivere di pesci crudi, dormendo sotto la volta di ghiaccio di un “igloo”. Ma alla cena di investitura il cardinale di Palermo parla anche dell’attentato al Papa polacco: “In quei giorni”, dice, “l’Italia era divisa in due… a Roma c’era nell’aria qualcosa di strano, di teso. Mentre piazza San Pietro come al solito si era riempita di fedeli entusiasti (…) in piazza del Popolo si era radunata una grande massa di gente per un comizio unitario delle sinistre e dei partiti laici a favore della legge sull’aborto”.
Un po’ come sta facendo ora Papa Francesco, Giovanni Felice II, con la sua calma di gigante buono comincerà ad infrangere, uno dopo l’altro, tutti gli usi della Chiesa istituzionale, fredda e distante, potenza fra i potenti della terra. Il suo primo discorso alla folla – infatti – sarà sui cani che trascinano le slitte e si affezionano agli uomini per quello che valgono. Il nuovo Papa rifiuterà poi di scrivere la solita enciclica e di aderire al consueto ricevimento per il Presidente degli Stati Uniti. “Dio è come il cane”, dirà ai fedeli: “Non guarda il di fuori. Dio guarda che uomo sei dentro, che donna sei dentro”. Così inevitabilmente si dirà di lui: “Papa luget in rubro”, il Papa piange in rosso. Ma lui andrà avanti imperterrito: lo sguardo rivolto agli uomini per ascoltarli nelle loro fatiche gli permetterà di discernere meglio le cose di Dio.
Procedendo per questa via, Giovanni Felice II finisce col chiudere bottega, come voleva Malachia. Ma se apre le porte del Vaticano e cede la Santa Sede allo Stato italiano, lo fa per andare tra la gente. E il solito cardinale di Palermo, che ha già dimostrato di essere l’osservatore più acuto e onesto delle cose che avvengono dietro le cortine dei palazzi, commenta: “Ho scoperto che cosa voleva dire Malachia: non l’ultimo dei Papi, ma l’ultimo dei Papi in Vaticano: Pietro ritorna, Pietro secondo, a vivere ospite di una casa o di un’altra… la profezia di Malachia si avvera”. E Papa Wajku gli risponde: “Forse si avvera anche la profezia di Cristo, quando disse a Pietro: prima andavi dove volevi, poi altri ti condurranno”.
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