“Conosci me la mia lealtà tu sai che oggi morirei per onestà. Conosci me, il nome mio, tu sola sai se è vero o no che credo in Dio. Che ne sai tu di un campo di grano…”. Queste frasi di una delle più belle canzoni italiane della seconda metà del ‘900 tornano alla mente davanti a un’iniziativa del loro autore, Giulio Rapetti, il grande Mogol, che coinvolge nientemeno che il principale collaboratore del Papa, il cardinale Pietro Parolin, segretario di Stato della Santa Sede, il quale ha deciso di impegnare la diplomazia vaticana per far decollare un progetto di cooperazione lanciato dal paroliere in aiuto delle popolazioni africane.
“L’idea è quella di dare lavoro in Africa attraverso un’organizzazione di aziende agricole europee, che poi trasferiranno il know how ai giovani migranti”, spiega Mogol presentando “African Agricolture A2”, che con la benedizione del Vaticano porterà in Africa coltivazioni biologiche di qualità, impianti di desalinizzazione per non depauperare le risorse idriche e allevamenti per la produzione di concime. E darà lavoro al di qua e al di là del Mediterraneo per aiutare i migranti qui e a casa loro.
“Cosa ne sai tu di me. Cosa ne sai. Cosa ne sai dei miei guai. Tu che ne sai. Cosa ne sai”. Questa la rilettura che di “Pensieri e parole” ha fatto la bella e talentuosa Anna Tatangelo, un testo che evoca invece la brutta pagina che stiamo vivendo con le incomprensioni dell’Unione Europea riguardo all’impegno del nostro Paese nell’accoglienza dei migranti, e soprattutto con le posizioni che l’Italia stessa ha assunto in materia di respingimenti e pattugliamento delle acque libiche.
Come è possibile conciliare la fiera rivendicazione delle operazioni di salvataggio della Guardia Costiera e della tradizionale ospitalità degli italiani, e le posizioni francamente razziste come quella che proclama la distinzione (in realtà impossibile) tra profughi e migranti economici? Ovvero con il rinvio (sine die) della legge sacrosanta sullo Ius soli che molto gradualmente dovrebbe eliminare la discriminazione tra bambini nati insieme, cioè negli stessi ospedali, che andranno nelle stesse scuole, ma con prospettive del tutto diverse in quanto è l’appartenenza razziale (lo Ius sanguinis) che deciderà il loro futuro.
E infine con gli attacchi alle Ong che vanno a salvarli in acque secondo il nostro Governo e il codice Ue che proibisce tali operazioni, come se lì non si potesse affogare o se affogano pazienza, fino ai sostanzialmente ipocriti accordi con i Paesi da cui partono i barconi, affinché a questi disperati venga impedito di partire e restino imprigionati nei lager della Libia.
Cosa vi accade ce lo hanno spiegato enti al di sopra di ogni sospetto, come l’Unicef che parla di 12.000 minorenni arrivati in Italia nei primi sei mesi di quest’anno, bambini e ragazzi, fuggiti dai loro Paesi a causa della fame e delle violenze, spesso intercettati dai trafficanti e portati in Libia, dove subiscono abusi di varia natura e in conseguenza di questo cercano di imbarcarsi verso l’Italia.
O l’Oxfam che ha documentato centinaia di storie di persone arrivate in Sicilia negli ultimi 12 mesi raccontando di essere state picchiate, abusate, vendute e arrestate illegalmente. “L’84% delle persone intervistate ha dichiarato di avere subito trattamenti inumani tra cui violenze brutali e tortura, il 74% ha dichiarato di aver e assistito all’omicidio o alla tortura di un compagno di viaggio, l’80% di aver subito la privazione di acqua e cibo e il 70% di essere stato imprigionato in luoghi di detenzione ufficiali o non ufficiali”.
L’appello di padre Alex Zanotelli: rompiamo il silenzio sull’Africa
La domanda “Tu che ne sai?”, invita a porsela anche che il missionario comboniano Alex Zanotelli in un appello che ha rivolto ai media dal sito della Federazione Nazionale della Stampa. L’ex direttore di Nigrizia e attuale direttore della rivista Mosaico di Pace chiede di presentare la realtà africana per quella che è invece di fare allarmismo sui flussi migratori, dando spazio ai peggiori istigatori di odio e paura. “Non vi chiedo - spiega - atti eroici, ma solo di tentare di far passare ogni giorno qualche notizia per aiutare il popolo italiano a capire i drammi che tanti popoli stanno vivendo”. A noi giornalisti, addirittura, padre Zanotelli (che ha trascorso metà della sua vita nella discarica di Korogocho, alla periferia di Nairobi, condividendo le difficoltà e le malattie delle migliaia di persone che sono costrette a scavare nell’immondizia dei ricchi per comprare il cibo) chiede scusa perché ci sferza nonostante il caldo di “questa torrida estate”.
“Ma - si giustifica - è la crescente sofferenza dei più poveri ed emarginati che mi spinge a farlo. Per questo come missionario uso la penna (anch’io appartengo alla vostra categoria) per far sentire il loro grido, un grido che trova sempre meno spazio nei mass-media italiani. Trovo infatti la maggior parte dei nostri media, sia cartacei che televisivi, così provinciali, così superficiali, così ben integrati nel mercato globale. So che i mass-media , purtroppo, sono nelle mani dei potenti gruppi economico-finanziari, per cui ognuno di voi ha ben poche possibilità di scrivere quello che vorrebbe. Non vi chiedo atti eroici, ma solo di tentare di far passare ogni giorno qualche notizia per aiutare il popolo italiano a capire i drammi che tanti popoli stanno vivendo. Mi appello a voi giornalisti/e perché abbiate il coraggio di rompere l’omertà del silenzio mediatico che grava soprattutto sull’Africa”.
Secondo padre Alex è “inaccettabile” il silenzio sulla drammatica situazione del Sud Sudan che ha già causato almeno trecentomila morti e milioni di persone in fuga, il silenzio sulla Somalia in guerra civile da oltre trent’anni, sul Centrafrica come sul Congo, da dove arrivano i nostri minerali più preziosi, e sui trenta milioni di persone a rischio fame in Etiopia, Somalia , Sud Sudan, nord del Kenya e attorno al Lago Ciad, la peggior crisi alimentare degli ultimi 50 anni secondo l’ONU. Un silenzio mediatico che il religioso condanna anche sulla vendita italiana di armi pesanti e leggere a questi paesi che non fanno che incrementare guerre sempre più feroci da cui sono costretti a fuggire milioni di profughi. “Non conoscendo tutto questo è chiaro - osserva Zanotelli - che il popolo italiano non può capire perché così tanta gente stia fuggendo dalle loro terre rischiando la propria vita per arrivare da noi. Questo crea la paranoia dell’ ‘invasione’, furbescamente alimentata anche da partiti xenofobi”. “Davanti a tutto questo - conclude - non possiamo rimane in silenzio. I nostri nipoti non diranno forse quello che noi oggi diciamo dei nazisti?”.
Il vescovo Joe che ferito a morte non lascia i suoi amici
Pensava di morire monsignor Joseph Alessandro, conosciuto da tutti come Joe, il vescovo di Garissa, cioè anche del Campus della strage che 2 anni fa causò la morte di 150 persone, quando è stato ferito in Kenya da una pallottola. “Era il 18 ottobre 1993, guidavo la macchina, con me c’erano anche tre volontari maltesi che si trovavano in Kenya da un po’ di tempo. Ad alcuni chilometri di distanza dalla parrocchia, quattro uomini armati, puntando le armi alla nostra auto, fecero segno di fermarci. Facevano parte del gruppo terroristico Shifta”, ha raccontato nel libro intervista scritto con don Gigi Ginami, officiale della Santa Sede ma anche animatore della Fondazione Santina, in ricordo di una donna semplice e coraggiosa, sua mamma, capace fino all’ultimo giorno della sua vita di portare soccorsi e amicizia agli ultimi negli angoli più sperduti della Terra. Un personaggio che ha incarnato gli stessi valori di Joe, che ha scelto l’Africa quando era un semplice frate cappuccino maltese, e che proprio come Santina ha un passato fatto di sofferenza, con l’episodio dell’attentato che ha segnato la sua vita per sempre con una "cicatrice d'amore".
“Gli shifta attorno a noi ci ordinarono di scendere subito dall’auto: ma il mio femore era in frantumi, non riuscivo a scendere da solo e mi aiutarono i volontari. Eravamo continuamente sotto la minaccia dei banditi con i loro fucili puntati contro la nostra schiena”. “Mi chiesero dei soldi, dissi loro che non ne avevo e mi presero tutto quello che potevano portare via: occhiali, orologio, cintura, scarpe, persino i calzini… poi, sparirono e fui lasciato lì, nel silenzio più totale. Tentai di strisciare più lentamente che potevo, con la poca forza che mi era rimasta e mi spostai con difficoltà per raggiungere un punto da cui potessi vedere la strada. Non riuscivo ad alzarmi in piedi e sentivo il sangue scorrere dalla ferita. Continuai ad aspettare e a pregare Dio”
Erano mussulmani e sicuramente fanatici terroristi quelli che più recentemente hanno massacrato gli studenti cristiani a Garissa (don Ginami ha scritto anche la storia di Janet, una delle ragazze keniote uccise nell'università). Nel libro "Joe" edito da Velar per finanziare la Fondazione Santina, al vescovo maltese è posta la domanda: "perché sei tornato in Kenya, dopo quello che ti è successo"?. E Joe risponde con i fatti, con la sua opera di solidarietà che ancora regala speranze a madri e figli innocenti che si sentono abbandonati dal loro Dio e minacciati da quello degli altri. Quella speranza di cui spiega bene il senso nella prefazione del libro monsignor Dario Viganò, il super ministro della comunicazione della Santa Sede: "Sapere che Dio continua ad amare anche chi lo rifiuta è una fonte illimitata di fiducia e stimolo per la missione. Nessuna mano sporca può impedire che Dio ponga in quella mano la Vita che desidera regalarci. A questo amore, ha consegnato la propria vita il vescovo Joe, quando venne aggredito, gli spararono e, così, ebbe inizio la sua via crucis dalla quale è germogliato il perdono per coloro che gli hanno fatto del male".
In Vaticano, ha scherzato monsignor Viganò in occasione dei 4 anni della Fondazione Santina, “non ci sono solo delinquenti”. Alludeva a don Ginami e a tanti altri preti che non solo in Curia vengono infangati dagli errori (spesso criminali) dei loro confratelli. Ebbene, proprio nel Tribunale della Città del Vaticano, luogo deputato a far luce sui delitti commessi dagli ecclesiastici e dai dipendenti laici, il ruolo di promotore di giustizia nel secondo grado, cioè in appello, è ricoperto dal giurista Raffaele Coppola, noto ai media come “l’avvocato di Papa Francesco”, in nome del quale sta studiando le possibili vie del diritto internazionale per cancellare o almeno ridurre il debito estero. Non solo, il giurista cattolico, intervenuto alla conferenza stampa di presentazione della Conference Permanente des Villes Historiques de la Mediterranee, un meeting internazionale in programma a Gallipoli l’8 e 9 settembre, ha lanciato anche lui (come Mogol) un’iniziativa importante che consiste nel coinvolgimento nell’area del Mediteraneo delle realtà periferiche che dbbono potersi esprimere sui piani di sviluppo che non possono piombare dall'alto: "Lo sviluppo delle comunità locali - ha spiegato il professor Coppola - è lo sviluppo della gente. Per questo la sola possibile risposta strutturale alla drammatica domanda globale di democrazia e buon governo dell'area del Mediterraneo, Nordafrica compreso, è che le comunità civiche si riapproprino del loro ruolo politico tramite una rete di relazioni e cooperazioni. Occorre cioè partire dai piccoli centri e dalle zone rurali, quindi, per programmare lo sviluppo dell’intera macro-area del Mediterraneo".
Contribuire a mettere in moto questo processo indispensabile e indifferibile è dunque l'obiettivo dell'incontro di Gallipoli, che sarà incentrato sui temi quali demografia e migrazioni, redistribuzione delle risorse e tutela dell’ambiente, avrà come obiettivo quello di programmare la pace nel Mediterraneo a partire dall’affermazione di Giorgio La Pira, il sindaco santo di Firenze: “sanando le città si risanano le nazioni”.