La fine di Charlie Gard ha commosso l’Occidente al di qua e al di là dell’Atlantico, quella parte di mondo, cioè, che assiste in genere senza battere ciglio alla morte di bambini nelle aree di guerra (alimentando anzi i conflitti con la vendita delle armi) , ma anche nei Paesi dove la denutrizione è endemica (l’Africa impoverita dal neocolonialismo di molte multinazionali) e infine (recentemente assai spesso) nel tentativo dei loro familiari di fuggire appunto dalle guerre e dalla fame, che fa strage di innocenti nel Mediterraneo come al confine tra Stati Uniti e il Messico o nella traversata del deserto dal Sahel alla Libia (dove ora il combinato disposto degli accordi sottoscritti dal nostro Governo e del codice restrittivo della Ue per le Ong mirano a fermarli).
Partendo da questa considerazione c’è il rischio di cadere in una sorta di “benaltrismo”, che farebbe dire: invece di gridare tanto per questo piccino inglese condannato dalla sua malattia, forse dovremmo levare la voce in difesa dei suoi coetanei ugualmente innocenti, che intervenendo con una concreta solidarietà (invece di lavarcene pilatescamente le mani) potremmo in gran parte dei casi effettivamente salvare.
Sarebbe un errore infatti leggere solo in modo negativo quanto è accaduto, cadendo in un atteggiamento giudicante, che il Vangelo ci insegna a mettere al bando, e velleitario, nel senso che imboccando questa via si finisce sempre per non fare né la cosa contestata né il ‘ben altro’.
Così come è saggio, stavolta, scacciare quell’impressione che alcuni hanno provato in questi giorni riguardo al fatto che la malattia e la morte di Charlie possano essere state strumentalizzate in una contesa politica e culturale sul tema del fine vita. O peggio ancora utilizzate da leader politici, scienziati e centri clinici per farsi pubblicità a basso costo, sulla pelle del bambino e la sofferenza davvero atroce dei suoi genitori.
Il dovere della collaborazione tra medici, familiari e pazienti
Proprio il dolore che la mamma e il papà di Charlie, Connie Yates e Chris Gard, non hanno voluto nascondere e l’empatia sincera che hanno suscitato, rappresentano infatti il valore aggiunto di questa vicenda, come testimoniano le parole affidate dal Papa al suo tweet (inviato a 35 milioni di follower) : “Affido il piccolo Charlie al Padreterno, prego per i suoi genitori e per tutti coloro che l'hanno amato”.
Sono sinceri infatti i sentimenti che a nome di tutti gli italiani ha espresso il presidente della Cei, cardinale Gualtiero Bassetti: “Sentiamo il piccolo Charlie come nostro figlio. Il primo sentimento è di vicinanza umana e cristiana ai genitori, ai quali vorrei dire: ‘Carissimi non vi lasceremo mai privi del nostro affetto e della nostra preghiera’. Vi ringraziamo per la testimonianza che essi ci hanno dato, lottando con tutti i mezzi e le loro forze per assicurare le cure e la stessa vita al loro figlio. Questo vicenda ancora una volta ci insegna a non arrenderci mai e come ho detto altre volte a custodire, difendere, promuovere la vita della persona dalla nascita fino alla sua conclusione”. ”Auspico - ha concluso il Bassetti - che questo piccolo angelo dal cielo possa davvero prima di tutto sostenere i suoi cari in questa prova difficilissima e possa anche essere vicino a tante famiglie, soprattutto dove la sofferenza e talvolta la disperazione sono più forti”.
L’affetto sincero di tanti per il bambino e il suoi sfortunati genitori rappresenta dunque in qualche modo l’eredità di Charlie Gard. E la contesa legale per mantenerlo attaccato alle macchine, indubbiamente di difficile soluzione, ha tuttavia acceso i riflettori sulla necessità di un reale coinvolgimento dei pazienti e dei loro familiari nelle scelte dei medici, che tuttavia non possono mai diventare soluzioni “a la carte”, come si voleva a Londra, nel caso specifico, per lasciare ancora ventilato il bambino, in Belgio per far addormentare nel sonno della morte anche i minori che non hanno “diritto” all’eutanasia e al sucidio assistito.
“Nel caso di Charlie, un risultato - ha spiegato Mariella Enoc, presidente del Bambin Gesù, l’ospedale vaticano che in sinergia con un centro clinico degli Usa voleva tentare una terapia sperimentale - lo abbiamo raggiunto: la spina non è stata staccata senza avere prima risposto ad una legittima richiesta di cura da parte dei genitori e senza avere prima verificato fino in fondo le condizioni del bambino e le opportunità concrete offerte dalla ricerca a livello internazionale. Abbiamo raggiunto anche un secondo risultato: un confronto congiunto internazionale approfondito sia sul piano scientifico che su quello clinico; un fatto straordinario, un caso emblematico per il futuro delle malattie rare. Per la prima volta - cioè - su un singolo paziente si è mossa la comunità scientifica internazionale, per valutare concretamente e fino in fondo le possibilità di cura. La comunità clinica e scientifica internazionale, che si mette in rete e fa sinergia per un malato e si mobilita per una vita, lavorando a stretto contatto, rappresenta un precedente che darà più forza a tutti i Charlie che verranno”.
”Questa - ha affermato la Enoc - è la vera eredità del caso Charlie: l’impegno a sviluppare concretamente un modello di medicina personalizzata. Per questo valeva la pena fare tutto ciò che abbiamo fatto, trainati dalla forza di Charlie e dei suoi splendidi genitori, dalla forza della condivisione indispensabile nel percorso di cura con la famiglia, dalla forza dell’alleanza tra i clinici, la famiglia e il paziente, senza dimenticare il contributo importante delle associazioni dei malati che in questi casi rappresentano un punto di riferimento prezioso per tutti i soggetti coinvolti”.
La dottoressa Enoc, presidente dell’ospedale Bambin Gesù, si è molto esposta sul caso inglese e certamente avrà avuto un “via libera” dalla Santa Sede. Proprio per questo bisogna ben distinguere la sua posizione da quella di chi la vicenda di Charlie ha rischiato davvero di strumentalizzarla, piegandola alla logica della contrapposizione culturale e valoriale, che non è mai di aiuto. Non solo gli integralisti nostrani ma addirittura il Congresso degli Stati Uniti ha ecceduto in questa controversia, poco ci mancava che mandassero delle navi a presidiare la Manica (come facciamo noi con le acque territoriali libiche).
L’esempio di San Giovanni Paolo II e le parole del cardinale Martini
La fede e i valori, nella visione di Papa Francesco, infatti, non vanno mai impugnati come clave per colpire qualcuno e vincere una battaglia ideologica, che comunque divide e avvelena la società. Ergersi a giudici degli altri sotto l’aspetto morale è un atteggiamento che il Vangelo ci insegna a condannare come farisaico.
In particolare in questa triste vicenda la parte dei cattivi i media italiani (e non solo quelli cattolici) l’hanno assegnata ai medici inglesi, che in effetti ritenevano semplicemente di opporsi a un accanimento terapeutico, al quale i sanitari hanno l’obbligo di opporsi. La recente revisione della Carta degli Operatori Sanitari voluta da Papa Francesco lo dice chiaramente: “la nutrizione e idratazione, anche artificialmente somministrate vanno considerate tra le cure di base dovute al morente, quando non risultino troppo gravose o di alcun beneficio”.
Ovvero tale pratica “è obbligatoria, nella misura in cui e fino a quando dimostra di raggiungere la sua finalità propria, che consiste nel procurare l’idratazione e il nutrimento del paziente”. Il documento conferma anche “la eticità della sedazione palliativa profonda nelle fasi prossime al momento della morte, attuata secondo corretti protocolli etici e sottoposta ad un continuo monitoraggio”.
L’esempio più drammatico e concreto di una scelta consapevole di perseguire ogni cura possibile ma solo fino a quando questo è sensato, ce l’ha dato Karol Wojtyla, che si chiamava Carlo proprio come il bambino di Londra. Nonostante l’invalidità rendesse difficile il suo ministero, San Giovanni Paolo II negli ultimi anni del Pontificato non si oppose a nessuna terapia , e nei primi mesi del 2005 accettò ben due ricoveri al Policlinico Gemelli. Ma lo stesso Papa polacco poi decise di non sottoporsi al terzo ricovero in quanto sarebbe stato inutile (come spiegato in una celebre intervista a Repubblica dal suo medico Renato Buzzonetti). E ancora, pur accettando di buon grado il sondino naso gastrico e la tracheotomia, che servivano per alimentarlo e farlo respirare, non autorizzò la cosiddetta Peg, cioè la metodica di alimentazione artificiale che non avrebbe modificato la realtà del tramonto al quale il Papa polacco era ormai avviato dalla sua malattia, ma certamente gli avrebbe impedito di continuare ad esercitare il suo ministero.
Come fa notare il professor Adriano Pessina, direttore del Centro di Bioetica dell’Università Cattolica, “vi è differenza fra una richiesta di morte (per non soffrire) e mettere la propria vita al servizio degli altri attraverso la categoria del sacrificio. Non cogliere la differenza fra l'istanza eutanasica e il comportamento di Giovanni Paolo II significa non vedere la differenza fra il prendersi e il donarsi. Si tratta di una scelta che unisce quanti, pur considerando la vita un bene primario, non l'hanno ritenuta il bene assoluto, e memori che ‘Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici’, non hanno rifiutato il Suo esempio, ma hanno ripetuto fino alla fine: ‘Totus tuus’, le parole che hanno guidato Karol Wojtyla in tutta la sua esistenza.
E tuttavia l’esempio di San Giovanni Paolo II ci esorta a distanziarci non solo dall’accanimento terapeutico (condannato del resto da diversi pronunciamenti della Chiesa) ma anche dalla crudeltà di certi giudizi come quello che privò Piergiorgio Welby di un funerale religioso (consentito invece, pur con qualche distinguo, a Dj Fabo).
“Situazioni simili saranno sempre più frequenti e la Chiesa stessa dovrà darvi più attenta considerazione anche pastorale”, ammonì il cardinale Carlo Maria Martini (omonimo anche lui di Charlie e di Karol) in merito al caso Welby ribadendo che se l'eutanasia è “un gesto che intende abbreviare la vita, causando positivamente la morte”. Come tale è inaccettabile ma diverso, invece, è il caso dell'accanimento terapeutico, ossia “l'utilizzo di procedure mediche sproporzionate e senza ragionevole speranza di esito positivo”. Interrompendole, spiegò il cardinale citando il Catechismo, “non si vuole procurare la morte; si accetta di non poterla impedire”.
E nel decidere se un intervento medico è da interrompere, aggiunse Martini sul Sole 24 Ore, “non può essere trascurata la volontà del malato, in quanto a lui compete - anche dal punto di vista giuridico, salvo eccezioni ben definite - di valutare se le cure che gli vengono proposte, in tali casi di eccezionale gravità, sono effettivamente proporzionate”. Su quotidiano economico, Martini sollecitò che si elaborasse in proposito “una normativa che da una parte consenta di riconoscere la possibilità del rifiuto delle cure, in quanto ritenute sproporzionate dal paziente, dall'altra protegga il medico da eventuali accuse, come omicidio del consenziente o aiuto al suicidio”. Questa normativa - precisò il cardinale - non deve implicare “in alcun modo la legalizzazione dell'eutanasia”. Obiettivo “difficile ma non impossibile: mi dicono - si legge in quel testo di Martini - che ad esempio la recente legge francese in questa materia sembri aver trovato un equilibrio, se non perfetto, almeno capace di realizzare un sufficiente consenso in una società pluralista”.
La dignità della vita che neghiamo a tanti. L’insegnamento di Chiara Lubich
Dello stesso argomento il cardinale gesuita si occupò anche nel “Dialogo sulla vita” da lui pubblicato su “L'espresso” nell'aprile del 2006, sostenendo che l'eutanasia “non si può mai approvare”. Ma aggiunse di non condannare “le persone che compiono un simile gesto su richiesta di una persona ridotta agli estremi e per puro sentimento di altruismo”.
E ancora, secondo Martini: “La prosecuzione della vita umana fisica non è di per sé il principio primo e assoluto. Sopra di esso sta quello della dignità umana”. Molte questioni che riguardano la nascita e la fine della vita - scrisse ancora il cardinale - sono “zone di frontiera o zone grigie dove non è subito evidente quale sia il vero bene”. Quindi “è buona regola astenersi anzitutto dal giudicare frettolosamente e poi discutere con serenità, così da non creare inutili divisioni”.
Ma più ancora colpiscono, e forse consolano perché ci fanno sentire il grande arcivescovo di Milano come una persona, al pari di tutti noi, piena di dubbi, le parole pronunciate da Martini in una concelebrazione nel 2012, appena qualche settimana prima di morire: “Vorrei dire una cosa: vorrei dirvi che se anche dall’altra parte non ci fosse nulla, sono felice di aver vissuto questa vita e di averla condivisa con voi”. Una frase che qualche giorno fa è risuonata al funerale di uno scienziato che in essa si era riconosciuto.
L’insegnamento che si può trarre da questa confidenza di Martini non riguarda tanto “le cose ultime”, cioè il Cielo che ci attende, del quale non sappiamo tutto ma solo alcune cose (soprattutto dal Vangelo nel quale Gesù ci dice: “Abbiate fede in Dio e abbiate fede anche in me. Nella casa del Padre mio vi sono molti posti. Se no, ve l'avrei detto. Io vado a prepararvi un posto; quando sarò andato e vi avrò preparato un posto, ritornerò e vi prenderò con me, perché siate anche voi dove sono io. E del luogo dove io vado, voi conoscete la via”). Ma riguardano ancora di più questa Terra sulla quale la nostra vita dobbiamo condividerla con gli altri (e soprattutto di aver fatto questo era soddisfatto alla fine il cardinale gesuita) come ci chiede Gesù parlando - attraverso l’evangelista Matteo - del Giudizio finale. Quel giorno, è il commento di Chiara Lubich, fondatrice dei Focolari che ci auguriamo sia presto dichiarata beata e poi santa, “il giudice divino dirà qualcosa che sorprenderà tutti: ‘Avevo fame e mi avete dato da mangiare...’. Quando mai, infatti, noi tutti uomini abbiamo dato da mangiare a lui? Perciò egli spiega: ‘Ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l'avete fatto a me’”: una descrizione, secondo la quale, “solo all'ultimo giudizio quindi si saprà che ogni uomo era fratello di Cristo, per cui ogni atto d'amore veniva fatto o negato a Cristo”. Ma la stessa pagina, cuore del Vangelo e del messaggio cristiano, ci indica la via unica per la salvezza: inchinarsi e soccorrere “i fratelli più piccoli”. “Un giudizio - sottolineò la fondatrice dei Focolari - dove sono convocati tutti gli uomini senza distinzione. Quell'espressione perciò non indica i cristiani soltanto, ma qualsiasi uomo, cristiano o no, si trovi in necessità o in difficoltà. Il testo parla di chi ha fame o sete, di chi ha bisogno di vestito o di alloggio, del malato, del carcerato, ma non è difficile estendere l'elenco a milioni di indigenti e di sofferenti, che nel mondo implorano, anche senza parole, il nostro aiuto”. Per Chiara, “ogni atto verso il prossimo, quindi, è riferito a Cristo ed ha un valore di eternità” perché “la carità è la cosa più importante per Gesù. È così importante che chi aiuta concretamente i suoi fratelli, è come amasse direttamente Gesù in loro, anche se non lo sa. Per questo potrà allora entrare con lui nel Regno del Padre, anzi il Regno gli invaderà il cuore fin da questa terra”.
La Lubich declinò questa intuizione (la spiritualità dell’unità) in un consiglio molto pratico che se seguito ci metterebbe al riparo dalle brutte scelte di questi giorni che rendono fragile la convivenza civile (a cominciare dai respingimenti e rimpatri, per finire con i campi di detenzione per gli immigrati e i richiedenti asilo): “Cominciamo subito a riconoscere Gesù in chiunque ci passa accanto. E, al di là di ogni vecchia discriminazione tra ricco e povero, colto e ignorante, simpatico e antipatico, vecchio e giovane, bello e brutto, trattiamo ogni prossimo come realmente tratteremmo Gesù. Qualunque sia, la nostra posizione nella società, non perdiamo le numerose occasioni che ci capitano per fare tanti atti d'amore, soprattutto verso i più bisognosi - gli affamati, i senzatetto, i malati, i disoccupati, gli emarginati, i drogati - di cui veniamo giorno per giorno a conoscenza nelle nostre città e nei Paesi lontani. E quando ce ne dimentichiamo, ricominciamo subito. Il prossimo da amare non mancherà mai”.