“L’importante è la rosa”. Passeggiando tra le rose del Parco di San Giovanni a Trieste in un’uggiosa mattina di maggio mi è tornata prepotentemente in mente questa raccolta di racconti di Bruno Ferrero, che mi pare sintetizzi con grande efficacia la storia e il senso di un luogo potente e bellissimo come l’ex ospedale psichiatrico provinciale triestino. Un posto ultracentenario che dimostra che tutto può essere trasformato, non c’è nulla e nessuno per cui non c’è più niente da fare, anche le cose impossibili possono essere realizzate.
Ferrero racconta che il poeta Rilke, quando abitava a Parigi, andando all’Università assieme a una sua amica incontrava regolarmente una mendicante a cui non dava mai nulla, a differenza della sua compagna di strada, che un giorno gli chiese come mai. "Dovremmo regalare qualcosa al suo cuore, non alle sue mani", le rispose. Il giorno dopo il poeta arrivò con una splendida rosa appena sbocciata, la depose nella mano della mendicante e fece l'atto di andarsene. Allora — scrive Ferrero — accadde qualcosa d'inatteso: la mendicante alzò gli occhi, lo guardò, si sollevò a stento da terra, gli prese la mano e la baciò. Poi se ne andò stringendo la rosa al seno. Per un’intera settimana nessuno la vide più. Ma otto giorni dopo era di nuovo seduta nel solito angolo della via. Silenziosa e immobile come sempre. "Di che cosa avrà vissuto in tutti questi giorni in cui non ha ricevuto nulla?", chiese l’amica a Rilke. "Della rosa", rispose il poeta.
Una rosa come segno di attenzione
Una rosa, dunque, perché come ammoniva Antoine de Saint-Exupéry "non si può continuare a vivere occupandosi soltanto di frigoriferi, politica, bilanci e parole crociate. Non è possibile andare avanti così". Una rosa come segno di un’attenzione che va oltre i bisogni materiali, che interpella, coinvolge, mette in discussione, che abbraccia la persona mettendo tra parentesi il suo problema, la sua malattia. Non per negarla, ma per restituire dignità a ogni donna e a ogni uomo, anche a quelli malati di mente, ridotti a mostri senza diritti da accantonare in quei “bacini di scarico della società dei sani” che erano considerati i manicomi. "Sino a poco fa, il matto era una non-persona, pericolosità da isolare o mera esistenza animalesca da relegare e dimenticare", scrive Claudio Magris nella prefazione di “Basaglia. Una biografia”, un bel libro di Francesco Parmegiani e Michele Zanetti ; "Per la società dei sani siamo sempre stati spazzatura, puzza di piscio e segatura. Questa è malattia mentale e non esiste cura", canta Simone Cristicchi in “Ti regalerò una rosa”, canzone con cui nel 2007 ha vinto Sanremo, portando nelle case degli italiani il dramma dei matti rinchiusi nei manicomi.
L'arrivo di Franco Basaglia
Di matti ricoverati ce n’erano 100 mila in Italia e quasi 1200 nel manicomio di Trieste quando nel 1971 Franco Basaglia assunse la direzione; lo psichiatra veneziano arrivava da Gorizia, dove aveva scoperto una realtà, fatta di elettroshock, camicie di forza e inferriate alle finestre, estremamente diversa da quella studiata all’Università, e dove aveva maturato una convinzione profonda, che sarà alla base del suo lavoro e della sua riforma: "Il malato non è solamente un malato, ma un uomo con tutte le sue necessità". Un nostro simile particolarmente sfortunato a cui offrire aiuto, un escluso privo di cittadinanza e di adeguata difesa, una persona sofferente di cui farsi carico, di cui prendersi cura, con cui perdere tempo. Come si fa con le rose. Che a San Giovanni sono tante, più di cinquemila, ma ciascuna è unica, diversa.
Lo sa bene Vladimir Vremec, progettista delle collezioni di rose del Parco, che guida la passeggiata alla quale partecipo: è un’iniziativa che fa parte della Rassegna “Rose Libri Musica Vino”, che da sette anni a questa parte anima il maggio triestino con l’intento, riuscitissimo, di valorizzare questo pezzo di mondo restituito alla città. Dove un tempo due cancelli, uno a valle e uno a monte, separavano dalla vita persone quasi sempre inoffensive, ma solitamente poco abbienti, a cui era stata appioppata l’etichetta di matti, una quarantina di edifici dislocati in 22 ettari, ora operano l’Università, l’Azienda sanitaria, degli istituti superiori, un museo, uno spazio per conferenze, un teatro, un bar, una palestra, alcune cooperative sociali: è il frutto della chiusura del manicomio, annunciata nel 1977 e culminata nell’approvazione, il 13 maggio 1978, della Legge 180, che formalizzò la riforma psichiatrica e sancì la deistituzionalizzazione. Un traguardo a cui si è arrivati dopo che Trieste era stata dichiarata dall’Oms “zona pilota” per la psichiatria e la salute mentale e dopo un percorso di sensibilizzazione e di acquisizione di consapevolezza cominciato ufficialmente con la rimozione delle reti alle terrazze dei padiglioni.
Il manicomio più bello del mondo
C’è da dire che queste reti non esistevano nel progetto originario del manicomio realizzato nel 1908 a firma di Lodovico Braidotti, un progetto in cui l’architettura era parte integrante di un progetto terapeutico in linea con le nuove teorie praticate in Germania e in Inghilterra. Sembra, pertanto, che il germe dell’innovazione questo posto ce l’avesse nel dna, nel sangue, anche se a metà degli anni ’30 ebbe inizio un degrado che lo portò a diventare simile alla maggior parte delle strutture esistenti in Italia: basti pensare in tema d’innovazione che il teatro esistente era dotato di un raro e sofisticato meccanismo di completa rotazione che consentiva la partecipazione agli spettacoli all’aria aperta durante la bella stagione. Proprio per questo sono in molti a chiedersi se l’aver lavorato in quello che da molti fu definito il manicomio “più bello del mondo”, dove operò come primario anche lo psichiatra Edoardo Weiss, allievo di Freud e fondatore della Società Italiana di psicanalisi, abbia fatto la differenza nel percorso avviato da Basaglia. Un posto dove c’erano porte aperte, padiglioni singoli, uno spazio verde ben curato e le rose. Scelte già allora da Braidotti (nella planimetria originale dei primi del Novecento c’è tanto rosa!) come pianta ornamentale predominante per dare sollievo a chi era rinchiuso, simbolo di libertà e felicità, sono state poi riconfermate come nesso tra passato e presente, occasione per creare bellezza e riavvicinare la cittadinanza a questo luogo.
Perché la deistituzionalizzazione, quella vera, mi spiega Giancarlo Carena, presidente dell’Agricola Monte San Pantaleone, ripara luoghi e produce il bello. Lui ne sa qualcosa: la cooperativa sociale che guida, nata nel 1978, è una delle risposte concrete inventate per restituire ai ricoverati liberati piena dignità e garantire una regolare retribuzione che consentisse loro di affrontare la realtà. L’Agricola è una bella impresa di giardinaggio, che conta circa 25 lavoratori e 7-8 borse lavoro, tutte persone selezionate tenendo presente le competenze tecniche, ma anche quelle relazionali: a Trieste ha messo mano a tantissimi giardini privati, lavorato sul verde urbano e grazie alla collaborazione con alcuni enti pubblici riqualificato il Parco di San Giovanni. È merito loro, testimoni del bello che fa bene e attenti alle innovazioni tecnologiche, se da dodici anni si fa Horti Tergestini, se stasera ceneremo in mezzo ai fiori dopo aver ascoltato il Trio Aritmija e degustato il vino dell’azienda agricola Sancin di Dolina, se nelle aree fino a poco più di dieci anni fa abbandonate ora c’è un roseto di più di cinquemila rose.
Far sì che ognuna diventi unica al mondo
Vremec le conosce ad una ad una, le chiama per nome, ne parla come fossero sue figlie: ci spiega che seguendo i nomi delle rose si può ricostruire la storia, e la storia dell’emancipazione femminile in particolare: si passa da Antigone a Karen Blixen a Susanna Tamaro, passando per l’Erotika, nata nel 1968 e poi ribattezzata Eroika per motivi di pudore. Il papà delle rose di San Giovanni ci racconta dove è andato a prenderle, come vengono trattate (senza alcun prodotto chimico), come rifioriscono dopo esser state tagliate, come prendersene cura. Insomma, come far sì che ognuna diventi unica al mondo. Il segreto è lo stesso che la volpe rivela al Piccolo Principe: "È il tempo che tu hai perduto per la tua rosa che ha fatto la tua rosa così importante". La stessa strada praticata da Franco Basaglia per curare la sofferenza delle persone: creare dei legami attraverso l’ascolto, la vicinanza, la condivisione di pesi spesso insostenibili. Mentre contempliamo tanta bellezza Patrizia Rigoni, la curatrice di “Rose Libri Musica e Vino”, prepara il palco dove è in programma una lezione universitaria all’aria aperta: Stefano Ondelli, docente di Linguistica, parla di leggings e cupcakes, ovvero di come l’inglese stia conquistando la moda e la cucina italiane. Anche il linguaggio si trasforma.
Una vera rivoluzione
Ci spostiamo nella zona delle rose antiche dietro Villa Bottacin: percorrendo i viali del Parco e incrociando tanta gente più o meno indaffarata, penso che lavorando in un posto simile si arrenderebbe anche il più incallito dei lavativi e provo a immaginare a come doveva essere trenta-quarant’anni fa, quando un “costruttore di utopie possibili” come Franco Basaglia iniziò una vera e propria rivoluzione. Rivoluzione che certo non fece da solo, ma che senza di lui non sarebbe nata. Rivoluzione che fece arrivare a Trieste studiosi e operatori da ogni parte d’Europa e dal Sud America, attratti da questa concreta possibilità di dare corpo ai propri ideali e alla speranza di cambiamento.
Uno di questi è Jaques Delgado, un cognome che tradisce la sua provenienza. Nell’aprile del 1989, a cinque anni dalla laurea in psicologia, alla fine di un grande amore, vende il maggiolino e compra un biglietto aereo per Trieste: tra il 18 giugno e il 7 luglio 1979 Basaglia aveva tenuto delle conferenze a San Paolo, Rio de Janeiro e Belo Horizonte e si era diffusa in tutto il Paese l’eco della sua battaglia, si sa che a San Giovanni si accolgono volontari, garantendo loro vitto e alloggio. "Eravamo una trentina — mi racconta Jaques — argentini, domenicani, baschi, una tedesca, un belga, una giapponese, un milanese, una serba, un canadese, una croata… uno spaccato di mondo; vivevamo nel Padiglione M, dove oggi hanno sede le cooperative sociali e dove — gli racconto io — è stata trovata una rosa che ha resistito a tutti i lavori di ristrutturazione. Un mese dopo il mio arrivo Franco Rotelli, uno dei successori di Basaglia, convoca tutti i brasiliani per comunicarci che la sindaca di Santos è intervenuta nel manicomio della città avviandone la chiusura; ci chiede cosa possiamo fare per supportare questo processo. Proposi di realizzare un libro in cui tradurre i testi più importanti di Basaglia, Rotelli, Dell’Acqua e Artaud: lo intitolammo “A loucura na sala de jantar” (“Follia in sala da pranzo”, ndr) e per due anni, da ottobre del 1991 a novembre 1993, girai il Brasile per presentarlo; feci tappa anche a Barbacena, la realtà più drammatica del Paese, dove esistevano ben 7 manicomi. In realtà tutto il Paese era problematico, c’era una vera e propria industria della follia, un business istituzionalizzato, c’erano strutture con 400 pazienti e 500 dipendenti, dove tuttavia le condizioni erano ugualmente vergognose: il manicomio — riflette — è il deposito della spazzatura, la società è tranquilla, perché non vede quello che c’è dentro. Finalmente nel 2001 si arrivò all’approvazione della 180 brasiliana, che decretò la nascita di 2500 centri di salute mentale sul territorio".
Un altro frutto della rivoluzione basagliana, un’altra rosa sbocciata. Come le tante che hanno trovato casa a San Giovanni, diffondendosi in lungo e in largo, perché quello dell’ex ospedale psichiatrico triestino è non a caso un roseto diffuso, pensato per non portare i visitatori in un punto soltanto. Rose spuntano ovunque: ognuna ha un odore diverso, chi più intenso chi meno, tutte insieme hanno contribuito a rimuovere quell’insopportabile lezzo di ogni tipo di deiezione umana di cui sono impregnate le pareti di qualsiasi manicomio. Il fetore può diventare profumo; tutto può essere trasformato, riparato, rigenerato. Per rendersene conto basta fare un salto alla Lister Sartoria Sociale, un’altra delle cooperative che ha sede al piano terra del Padiglione M: si lavora esclusivamente con materiali tessili riciclati, offrendo opportunità a persone che non potrebbero lavorare in nessun altro posto se non quello, facendo affidamento su quella che rimane la prima risorsa a disposizione, ovvero il capitale umano. Qui vecchi jeans, ombrelli rotti, cravatte vengono destrutturati e trasformati, ricevendo nuova vita: il trauma viene accolto e riparato. Come nelle rose di Sarajevo: piccoli crateri prodotti dall’impatto della granata sull’asfalto, poi riempiti e colorati di rosso a ricordo di chi in quel punto ha perso la vita. La parola chiave è insieme. Perché in fondo, come canta Cristicchi, "la mia patologia è che son rimasto solo" e quest’esperienza di cooperazione, di lavoro fianco a fianco, serve a contenere l’angoscia, mi spiega la presidente Carla Stefani.
Si può esistere solo con un supplemento di attenzione: la stessa attenzione del poeta Rilke verso la giovane mendicante, la stessa di Basaglia verso le persone malate, la stessa delle cooperative sociali verso chi lavora con loro. Con una rosa. Per dipingere ogni cosa, per ogni lacrima da consolare, per dimenticare ogni piccolo dolore, per amare.