Quando l'archeologia s'ispira alla social museologia

L'importanza della comunicazione e i suoi obiettivi strategici per il futuro della cultura

Quando l'archeologia s'ispira alla social museologia

I social media servono per creare interesse intorno all’archeologia? Possono renderla familiare a quel 70% di italiani che non hanno mai messo piede dentro un museo? Gestiti da professionisti, possono creare comunità di cittadinanza attiva? Domande retoriche per gli esperti del web, ma la prassi museale sul tema social communication manifesta ancora incrollabili “chiusure”, nonostante i decreti ministeriali e gli esempi virtuosi.

Perché il Sud è importante

Si parlerà di “Musei archeologici e paesaggi culturali”, a Napoli il 9 e 10 marzo al convegno organizzato da Icom (International Council of Museums) e dal Mann (Museo Archeologico Nazionale di Napoli) in occasione dei 70 anni di Icom Italia e dell’Anno europeo del patrimonio culturale.

Il Convegno - aperto a tutti - promuove un confronto tra professionisti di ambiti diversi sul ruolo delle istituzioni e dei luoghi della cultura archeologica nella complessa società contemporanea. L'appuntamento, attraverso relazioni e tavoli di lavoro, si propone di far emergere proposte e prospettive su alcuni temi specifici quali ricerca, comunicazione, salvaguardia e gestione.

Gli esiti dei confronti costruiranno i punti chiave di un documento condiviso sugli obiettivi strategici nell'ambito della museologia archeologica.

Un aspetto importante da sottolineare è il particolare ruolo che in questo confronto assume l'Italia meridionale. Perché? Perché il Sud è un’area del paese dove l’archeologia ha subito frequentemente la prassi dittatoriale di alcune gestioni, per dirla con un eufemismo, “inclini all’autoreferenzialità”.

Ed è un segno incoraggiante perciò – almeno per coloro che si adoperano per cambiare un simile paradigma – che proprio da qui, per svariate ma non casuali ragioni, negli ultimi anni, sia partito un nuovo protagonismo dell’archeologia e dei musei, due elementi che nel Meridione costituiscono un binomio imprescindibile. Le soluzioni che si sono sperimentate in contesti talvolta difficili, sempre faticosamente combattuti, meritano perciò di essere prese in considerazione con rispetto.

Linguaggi e pratiche: da dove iniziano i veri cambiamenti

“La comunicazione nei luoghi della cultura archeologica: strumenti e linguaggi. Le professionalità della comunicazione museale. La divulgazione per il grande pubblico“ sarà il tema dell’atteso tavolo dedicato alla comunicazione archeologica, di cui ho l’onore di far parte, insieme ad altri protagonisti e studiosi.

Comunicazione è una parola che può voler dire tante cose o niente, ed è - da sempre - un punto dolente per una certa archeologia con tendenze all’esoterico. Il mondo degli archeologi, quello aulico dei vecchi maestri ma spesso anche quello apparentemente più accessibile delle nuove generazioni, porta con sé un retaggio culturale difficile da scardinare: una forma mentis squisitamente tecnico/materica, incapace di prendere coscienza della dimensione relazionale che i reperti possono avere e del ruolo social[e] che la disciplina dovrebbe svolgere.

Un approccio, consentitemi di dire, che per inerzia rimanere ancorato al culto dell’oggettistica. E che dà ancora il meglio di sé in quella malattia del linguaggio, resistente a qualsiasi farmaco antivirale, che considera sacro e immutabile il gergo dell’archeologhese, l’antilingua che – alla stregua del burocratese - impedisce di pensare ‘con’ i comuni mortali, consolidando più o meno inconsciamente meccanismi di pura autoconservazione. Che sono gli stessi di chi continua a pensare che, in un contesto museale, servano solo figure preparate a ”sapere” o “a saper fare” nell’ambito dell’archeologia.

Soffermiamoci invece sulla comunicazione esterna, quella cioè rivolta al cosiddetto grande pubblico. Pensiamo, per intenderci, a quel 70% di italiani che non hanno mai messo piede dentro un museo. Anzi, chiamiamola con il suo vero nome: soffermiamoci sull’accessibilità culturale!

Prendiamo le distanze dalla prospettiva miope che ha separato sempre più i luoghi della storia dalle persone che in quei luoghi vivono oggi e che hanno il diritto di far entrare nel loro presente quel passato che appartiene anche a loro. Ci accorgeremo che per farlo non basta essere “soltanto” archeologi.

Comunicare: come e chi deve farlo?

Chi scrive è convinto che se l’archeologia non riusciamo a farla vivere, a farla entrare, con leggerezza, dentro la nostra vita quotidiana il museo ha fallito la sua missione educativa. Che è anche far comprendere quanto il passato incida nelle scelte di tutti i giorni. Su chi sia titolato o meno ad assolvere efficacemente questo compito si accendono diatribe corporativistiche, che – con questi chiari di luna – somigliano spesso a deprimenti duelli all’ultimo sangue fra morti di fame. Non voglio sfoderare la mia colt. Chiedo solo, sommessamente: se le strategie di social communication di marchi a noi molto noti, diventati oggetto di studio nelle accademie, fossero state affidate a mastri birrai o mastri pastai, i risultati in termini di ROI sarebbero stati gli stessi?

Su questo punto ci sarà molto da riflettere: oggi un’istituzione che si dichiara aperta al cambiamento non può fare a meno di figure “ibride”, aperte alle contaminazioni dei saperi e dei linguaggi. Anche di “visionari”, perché no?, in grado di immaginare i confini come opportunità per ideare percorsi inusuali e non come rassicuranti recinti per la propria comfort zone.

Il pericolo dell'ignoranza

Un museo che non vuole più essere un’isola senza collegamenti ma una terra ricca di approdi, crocevia di interazioni, è obbligato a puntare sulle connessioni digitali. Purtroppo però, ancor oggi, negli ambienti archeologici non è facile far passare i social media come strumenti di lavoro senza suscitare un certo disappunto, o addirittura lo scherno degli inossidabili paladini dell’ortodossia (e, in concreto, di chi vuole che tutto resti com’è).

Per loro i social sono – ancora - solo espressione di disfunzione o, nella migliore delle ipotesi, di futilità. "L'unico pericolo sociale è l'ignoranza" scriveva Victor Hugo più di 150 anni fa… brutta bestia, oggi, la social ignoration!

In realtà le piattaforme social[i] offrono al museo degli strumenti importantissimi – e da prendere molto sul serio! – per ridefinire ed esaltare la loro funzione di prossimità con le comunità del territorio. Ne fanno un centro social[e] senza confini che si “appropria” e sperimenta – con competenza – le potenzialità degli ecosistemi social[i] del web, alla ricerca dei possibili percorsi di significato collettivi.

Pensate che straordinaria opportunità: un museo che si fa soggetto attivo, che entra dentro la vita affettiva delle persone attraverso i device - l’interfaccia con il mondo - come se fosse un amico, creando così quel continuo e quotidiano legame affettivo e valoriale, imprescindibile per la creazione di una comunità.

O, ancor di più: un museo che “naturalmente” diventa, insieme alla sua community, co-produttore mediale, che ibrida i linguaggi propri dei media e della contemporaneità con quelli dell’archeologia, utilizzando tutte le opportunità comunicative che i media digitali hanno creato e che fa del suo essere perennemente connesso con il suo pubblico, la sua nuova condizione identitaria di pratica culturale, relazionale e sociale; attraverso i media e per mezzo di essi, secondo logiche di bottom-up, top-down, oltre che naturalmente in modo orizzontale.

Aperti per vocazione: l’emblema di una svolta

Era il marzo 2014 quando il Museo Salinas di Palermo lanciava in rete il pionieristico progetto di accessibilità culturale denominato ’Aperti per Vocazione’.

Un caso unico di social museum a ‘porte chiuse’: il museo sperimenta per tre anni in ‘purezza’, essendo chiuso per restauri, l’apporto strategico che l’uso ‘strumentale’ dei social media determina per ‘collegare’ i cittadini alle collezioni.

Queste azioni, facendo leva sulle dinamiche reattive delle piattaforme, hanno creato una comunità di cittadinanza attiva, coinvolta nelle iniziative, soprattutto in ambito comunicativo, che hanno determinato la partecipazione ai processi di co-produzione culturale. Senza il sostegno puntuale, appassionato e fattivo dei veri “amici del museo” questa esperienza non sarebbe stata possibile nei termini in cui si è evoluta.

In un certo senso è la prova provata che, anche in condizioni estreme, la cultura è la relazione che tiene insieme le persone e che gli ecosistemi social networking del web sono dei catalizzatori d’interesse straordinari. Per il Salinas, oggi parzialmente aperto – come per tutti gli altri musei – un vero e proprio certificato di esistenza in vita, in quanto leve imprescindibili per innescare processi di condivisione della conoscenza presso il grande pubblico. 

Il passato ispira il futuro  

Le opere sono uno straordinario volano per esercitare la nostra creatività: e per innovare non serve la tecnologia, ma basta vedere le vecchie cose con occhi nuovi. Faccio un esempio concreto, così, per capirci: mettete una 
statuetta femminile, un ex voto di un
santuario dedicato al
 culto di Demetra, un oggetto che evoca il fondamentale legame della dea con il paesaggio e con la figlia Kore. Un oggetto certo non raro nell’archeologia magnogreca, che possiamo far diventare un ‘respingente’ con una presentazione puramente descrittiva [figurina fittile antropomorfa] o che può 
diventare l’emblema di
una svolta di atteggiamento: il volto che si
’offre’ sorridente e a braccia aperte Anima e Kore per accogliere,
quasi commossa, la community del museo che la ospita. Ecco un
simbolo che, dopo 
più di 2.500 anni, si
arricchisce di nuovi
significati, consegnato alla futura memoria del web, quasi come il mantra della social museologia.

Quest’immagine, da sola, può considerarsi il perfetto auspicio per un’archeologia che desidera essere empatica e pervasiva, capace di guardare lontano, raccontare e trasmettere quei segnali chiari e comprensibili, indispensabili per la sua funzione social[e].

Segnali capaci di comunicare nuovi indirizzi culturali e, soprattutto, capaci di creare dialogo e partecipazione. Un atteggiamento inclusivo che si pone come orizzonte non più solo il museo e le sue collezioni, ma i paesaggi circostanti e le comunità, eredi del patrimonio culturale, secondo quanto introdotto, in maniera innovativa, dalla Convenzione di Faro.  

La forza della museologia archeologica, oggi, sta nella sua rinnovata capacità di raccontare il patrimonio, tangibile e intangibile, sempre che abbia la lungimiranza e il coraggio di guardare oltre il proprio ombelico.

 



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