I dati più recenti diffusi dal Ministero per i Beni culturali ha mostrato un record di visite nei musei italiani nel 2016 e una previsione altrrettanto rosea per il 2017. Ma qual è lo stato della comunicazione tra i musei e gli italiani? Come vengono usati i social network e lo storytrelling? I dati non sono entusiasmanti, come rivela la ricerca “Informazione e patrimonio culturale. Come si informano gli italiani; come si comunicano i musei” condotta dal LaRiCA (Laboratorio di Ricerca sulla Comunicazione Avanzata), diretto da Lella Mazzoli che sarà presentata in occasione della V edizione del Festival del giornalismo culturale organizzato dall’Istituto per la Formazione al Giornalismo di Urbino e dall’Università di Urbino Carlo Bo-DISCUI.
Lo studio ha coinvolto anche dieci importanti musei nazionali impegnati, alcuni già da diversi anni, a sperimentare nuove modalità di conoscenza delle collezioni; tra gli altri il Mann di Napoli, l’Egizio di Torino, il Salinas di Palermo e il Maxxi di Roma.
Il tema dei linguaggi si preannuncia interessante: analisi qualitative di rilievo ne esistono poche. Nonostante, da più un decennio, le piattaforme sociali abbiano trasformato il concetto stesso di relazione e, conseguentemente, di cultura, se e come i musei italiani sperimentassero nuovi modi di raccontare il patrimonio non sembra interessasse a molti più che a quel pugno di “carbonari” che lo facevano. Almeno, fino ad oggi.
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I social media sono delle gioiose macchine da guerra che possono favorire l’accessibilità culturale e portare una benefica ventata di curiosità per il nostro passato. Con preordinate e calibrate azioni permettono di catturare l’attenzione anche di quel 70% di italiani che normalmente diserta i musei ma che passa diverse ore al giorno proprio sui social per informarsi un po’ su tutto.
Sono strumenti straordinariamente efficaci, a condizione che vengano gestiti da professionisti capaci di convertire adeguatamente i linguaggi.
Per farla breve, ci vogliono soggetti che sappiano tradurre i tecnicismi degli specialisti in contenuti comprensibili per il pubblico: serve sì competenza, strategia e creatività ma nello stesso tempo anche ponderatezza e rigore. Un’istituzione non deve mai perdere l’autorevolezza: deve informare il cittadino con leggerezza, incuriosire e, se occorre, far sorridere ma non deve mai smettere di essere credibile.
È un equilibrio sottile, impegnativo da mantenere: presuppone grande consapevolezza del ruolo ma anche diverse migliaia di ore di navigazione.
In tanti, purtroppo, ancora oggi, confondono la facilità di accesso agli strumenti della comunicazione sul web con la capacità di comunicare in maniera efficace.
È così difficile capire che non tutti quelli che posseggono un’automobile sono necessariamente dei provetti piloti?
Parole (e leggi) per cambiare
Un’istituzione culturale pubblica ha il dovere etico di rendere comprensibile a tutti la sua finalità e il suo operato. Alla stregua del burocratese anche l’archeologhese può costituire una barriera di accesso alla conoscenza!
I veri cambiamenti partono sempre dai linguaggi: cambiare un orizzonte culturale non è impresa facile: servono nuove visioni che generino nuovi linguaggi e, soprattutto, buone pratiche che creino relazioni e coinvolgimento attivo dei cittadini. Per attuare sistematicamente il rinnovamento serve però un nuovo modello organizzativo per la comunicazione degli enti pubblici, come proposto da PA Social, che preveda il riconoscimento di queste nuove professionalità. Ad oggi solo abusivi per passione o per necessità!
L’Italia: Paese di santi, navigatori e comunicatori museali?
È comunque incoraggiante constatare che, rispetto a qualche anno fa, l’interesse per questo tema sia aumentato. Del resto, lo dimostra anche il proliferare di seminari, conferenze e corsi: continuando così, a breve, rischiamo di avere più “social-esperti museali” che musei!
Incuriosisce, però, che questi “eventi formativi” e/o d’immagine risultino organizzati, a volte, da soggetti che appaiono, sulla carta, portatori del verbo della nuova socialità ma che, in rete, si rivelano grigi esempi di autoreferenzialità.
Ma lo scenario d’assalto alla mucca da mungere fa sorgere anche altre domande, più impertinenti: quanti dei tribuni (virtuali e non) che oggi si ergono a maestri hanno mai lavorato dentro un’istituzione culturale? È sufficiente aver fatto uno stage o un workshop a pagamento durante il fine settimana per fregiarsi di queste competenze?
Come nei vecchi annunci di lavoro sui giornali, verrebbe da scrivere:
Cerchiamo chi ce la racconta giusta. Astenersi storytellers last-minute, smanettoni in cerca di legittimazione culturale e “cuggini” illuminati dalla Convenzione di Faro!