Ma l’Italia che rischia la vita non è solo quella degli abusi edilizi
Cosa rimane della stagione del risveglio avviata nel 2014 alla luce delle tragedie di questi giorni

Ci fu un momento, nel 2014, in cui il Paese sembrò risvegliarsi da quel misto di rassegnazione e rabbia che ribolle a ogni nuova tragedia, dal rumore di fondo delle accuse tra governo e opposizioni. Allora come oggi l’opinione pubblica era scossa da disastri e vittime con altri nomi e altre geografie. Genova, Olbia, il Metaponto e sembrò esserci lo spazio per ripartire.
Il governo di allora (era quello guidato da Matteo Renzi) capì, prese molti dei dati che aveva – quante vittime costa il dissesto idrogeologico, quanti i soldi stanziati in emergenza per riparare i danni, quanti quelli che servirebbero per mettere finalmente in sicurezza il territorio - mise intorno a un tavolo un gruppo di lavoro che avrebbe dovuto concentrarsi solo sul Piano di messa in sicurezza dell’Italia.
Una sorta di nuovo piano Marshall per cui servivano, servono, circa 40 miliardi di euro secondo le stime dei vecchi PAI, i piani di assetto idrogeologico.
Nacque così l’Unità di missione “#Italiasicura” sotto il diretto controllo della Presidenza del Consiglio e iniziammo almeno a chiamare le cose col loro nome sui giornali, nei dibattiti. Non solo frane o alluvioni ma dissesto idrogeologico, mitigazione del rischio idrogeologico, politiche di adattamento ai cambiamenti climatici.
Già allora sapevamo tutto: che dal 1944 al 2012 abbiamo avuto 61,4 miliardi di euro di danni da dissesto idrogeologico; che, nonostante intervenire a posteriori costi più che prevenire, dal 2002 al 2012 abbiamo speso solo 2 miliardi di euro per mettere in sicurezza il territorio. E nello stesso periodo appena il 5% dei bandi per opere pubbliche ha riguardato interventi di prevenzione.
Sapevamo che il 9,6% degli italiani vive in zone a rischio idrogeologico (più di 5 milioni e mezzo di persone), e che quel numero invece di diminuire è aumentato del 5% nel Nord Italia tra il 2001 e il 2013. Oggi, secondo il rapporto 2018 dell’Ispra sul dissesto idrogeologico, è il 20% della popolazione italiana a vivere in zone a medio rischio di alluvioni e frane.
Sapevamo anche altro, e chissà che non ci sia utile ricordarlo proprio in queste ore, ovvero quanto sarebbe stato difficile superare alcune forche caudine come ottenere a Bruxelles di superare i vincoli del Patto di Stabilità non solo per gli interventi post disastro ma anche per le opere preventive di messa in sicurezza.
Nel 2014 il Parlamento italiano lavorò in questo senso ma a Bruxelles quella partita non l’abbiamo mai vinta.
Così come non siamo ancora riusciti a superare il tabù della delocalizzazione e dell’abbattimento delle case costruite in territori a rischio. E non sono affatto tutte abusive, in Italia ce ne sono a migliaia costruite a norma di legge in linea con i piani regolatori ma altrettanto pericolose perché sorgono nelle piane alluvionali, in territori soggetti a frane, troppo vicino ai fiumi.
In Italia la casa continua a essere sacra anche se ci si muore dentro. “Fino a quando – mi disse un giorno un geologo calabrese mentre lavoravo all’inchiesta #DissestoItalia - una casa avrà un valore immobiliare più alto per la qualità dei suoi rivestimenti e non perché è costruita su un terreno sicuro non cambierà mai niente in questo Paese”.
In realtà qualcosa dal 2014 è cambiato, sono state finanziate opere anche importanti, ma sono state ancora una volta quelle che la scure delle singole manovre finanziarie ha permesso. Nessun piano sistematico su larga scala.
Ora il governo è un altro, il ministro dell’Interno Matteo Salvini sostiene che sia falso dire che in Italia non c’è attenzione all'ambiente, che la responsabilità di disastri come quelli di queste ore è "di troppi anni di incuria e malinteso ambientalismo da salotto” (la Repubblica).
Il governo in carica intanto ha chiuso l’Unità di missione “#Italiasicura”, quella task force interamente dedicata al tema, non ha ancora approvato il Piano nazionale di adattamento ai cambiamenti climatici che l’Italia dovrebbe approvare entro il 2018, ovvero entro 55 giorni e di cui esiste già una bozza lasciata dal precedente governo. E non è chiaro quanto abbia ipotizzato di investire nella prossima finanziaria sulla lotta al dissesto idrogeologico e ai cambiamenti climatici.
Questa settimana avremo un Consiglio dei ministri straordinario. E, come avvenuto in decine di altri cupi Consigli dei ministri d’urgenza, chi stavolta siederà al tavolo ricomincerà l’apparentemente ineluttabile conta delle vittime, dei danni, dei possibili interventi in emergenza a seconda di quanti milioni di euro ne troveremo nelle pieghe dei bilanci. Per ora sembra almeno 250.
Non abbiamo bisogno solo di Consigli dei ministri straordinari, abbiamo bisogno di politiche pensate prima che le cose avvengono, di piani regolatori che non ammettano aumenti di cubature in aree a rischio, della certezza dei tempi e della qualità delle opere di messa in sicurezza del territorio, di tornare a re-investire sui capitoli di spesa che sono la manutenzione ordinaria di strade, fiumi, piane alluvionali.
Abbiamo bisogno di metterci in testa che tutto questo non è un’emergenza e che siamo in grado di affrontarlo come fa la Provincia autonoma di Bolzano dove si realizzano in house anche 250 progetti in un anno. Si chiama monitoraggio del territorio e mitigazione del rischio idrogeologico.
Altrimenti i Consigli dei ministri straordinari non saranno la risposta, ma solo la firma sotto il nostro ultimo ed ennesimo fallimento.
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