La presenza di mafie, in tutte le sue origini, nella Capitale è innegabile. Lo diciamo subito a scanso di equivoci e senza timore di essere smentiti. I clan Casamonica, Spada, Fasciani non sono vittime di un accanimento poliziesco-giornalistico ma una coagulazione di balordi che per decenni sono riusciti a imporre quel controllo del territorio tipico dell'antiStato: una mafiosità intrinseca. Quindi che sia necessaria un'azione di contrasto per isolare e debellare le parti 'infette' che contaminano la 'Città Eterna' rimane un'emergenza.
Premesso questo, con la stessa convinzione diciamo che la sentenza della sesta sezione penale della Corte di Cassazione che ha "smontato", come semplificano i titoli di molti media, l'accusa di associazione mafiosa nel processo sull'inchiesta sul 'Mondo di mezzo' riporta quella chiarezza giuridica senza la quale l'esercizio della giustizia diventa un arduo cammino esposto ai venti mediatici e politico-elettorali da cui le aule dei tribunali devono essere tenute al riparo.
È fuori luogo, sia conscio, inconscio o doloso, qualsiasi entusiasmo vetero garantista. Innanzitutto perché è facile prevedere, comunque, esemplari condanne definitive agli imputati che le meritano, e la legge Spazzacorrotti ha già cominciato a dare il suo contributo. Ma, in secondo luogo, di certo si può dire, che il 'sistema giustizia', questa volta, ha tenuto: l'enorme pressione a sostegno della tesi di una 'Mafia Capitale' con in tentacoli sul Campidoglio si è infranta contro un'interpretazione del Codice Penale che deve essere, sempre e comunque, asettica e non umorale.
La tesi della mafia autoctona capitolina, prepotente e onnipotente, almeno in questo caso, non può più essere l'alibi al costante degrado che vive la città. Anzi, è il momento, sollevato il sipario di scuse autocommiseratorie, di tornare a guardare la realtà e affrontare le piaghe cittadine.
Le gesta di loschi figuri, guidati dalla coppia Carminati-Buzzi, senza sottovalutare la loro caratura criminale, finalmente, non possono essere l'ombrello sotto cui ripararsi dalla pioggia di problemi quotidianamente inevasi. Ammantare il malaffare gestito da un branco di delinquenti, dediti alla mazzetta comunale e alla speculazione sulla vita degli ultimi, con la ripugnante fama mafiosa, lo diciamo senza toni polemici, non ha giovato a nessuno. Non all'inchiesta voluta dall'ex procuratore Giuseppe Pignatone, che forse avrebbe potuto marciare più spedita verso dure condanne. Sicuramente non a Roma e ai romani costretti a vivere nella paralisi, una bolla inerte da cui sembrano incapaci di uscire.