Attenzione: a Roma le mafie ci sono, anche se a volte non si vedono
La Cassazione ha stabilito che quella di Carminati e Buzzi non era un'associazione mafiosa. Ha prevalso una soluzione che, probabilmente, neanche il più ottimista degli avvocati difensori si aspettava

Corruzione Capitale sì, mafia Capitale no. Si potrebbe riassumere così la decisione della Corte di Cassazione che, ieri sera, ha annullato senza rinvio la sentenza dell’Appello che riconosceva l’associazione mafiosa per gli imputati dell’indagine della Procura di Roma. Ha prevalso una soluzione che, probabilmente, neanche il più ottimista degli avvocati difensori si aspettava. Ed adesso, in attesa di comprendere le motivazioni dei giudici della Suprema corte, si ritorna alla sentenza di primo grado.
La decima sezione penale del Tribunale capitolino, dopo ben 240 udienze celebrate nell'aula bunker di Rebibbia e diluite in venti mesi, decise che ci fossero due associazioni a delinquere «semplici» ai cui vertici c'erano Massimo Carminati e Salvatore Buzzi. Ma non la mafia. Decisione stracciata dal secondo grado di giudizio quando, la terza Corte d'Appello di Roma, riconobbe un’unica associazione mafiosa con ai vertici l’uomo dei Nar, Carminati e il ras delle cooperative, Buzzi.
I giudici di legittimità ieri hanno sancito un princìpio giuridico, oltre che decidere sulla mafiosità degli imputati, ecco perché – a maggior ragione - sarà molto interessante leggere le motivazioni.
Il “sistema” di “mondo di mezzo” era corruttivo, di grande malaffare ma di “crimini da strada”, certamente organizzato in un’associazione per delinquere, che però nulla aveva a che fare con la mafia. Almeno come la conosciamo tradizionalmente nelle sentenze su cosa nostra, ‘ndrangheta, camorra o sacra corona unita. Il problema sta tutto qui, infatti. Nessuno può pensare di considerare, al di là delle sentenze, un paragone fra il malaffare che c’era (ed è stato ampiamente riconosciuto) nella Capitale e l’andazzo che adoperano i boss mafiosi. E qui si inserisce un altro aspetto molto interessante. Il fondatore di Libera don Luigi Ciotti, e molti altri come lui, da tempo sostengono che la corruzione sia “l’altra faccia della stessa medaglia della mafia”. La corruzione, appunto. La stessa corruzione che era alla base dei comportamenti degli imputati di “mondo di mezzo”? Per la Corte no.
Facendo un passo indietro, però, si ritorna a parlare del fatto che a Roma non esista la mafia. Ed allora è bene chiarire che nella Capitale le mafie ci sono e ci sono da anni. E sono riconosciute da sentenze passate in giudicato. E che a Roma le mafie ci siano ce lo racconta prima di tutto l’esperienza: interi quartieri, migliaia di persone, vivono in territori assoggettati alle organizzazioni mafiose che gestiscono, ad esempio, le piazze di spaccio. Basti pensare ai casi di Ostia, dove sono stati riconosciuti gruppi mafiosi come i Fasciani o gli Spada. O alla gestione di attività di ristorazione nel cuore di Roma.
Ma non c’è – e da oggi lo possiamo dire con certezza di diritto – un’associazione mafiosa autoctona nata e cresciuta all’ombra del Cupolone.
C’è poco da gioire, però. Se si ritornasse al primo grado di giudizio anche come pene, gli imputati rischierebbero un notevole aumento degli anni di carcere. Basti ricordare che Carminati e Buzzi (solo per citarne due ma saranno ben 24 dei 32 condannati a doversi rivedere gli anni di carcere inflitti, mentre per otto la sentenza è definitiva) passarono rispettivamente dalle condanne a 20 e 19 anni del primo grado ai 14 anni e sei mesi e 18 anni e 4 mesi in appello.
Ed infine c’è l’aspetto culturale. Si può gioire per condanne per corruzione sotto l’aspetto della gravità del fenomeno italico?
Anche questa è una domanda a cui, probabilmente nel prossimo periodo, si dovrà tentare di dare una risposta. Senza l’alibi della mafia.
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