L'archeologia e le ferite da fuoco amico
A conti fatti è più dannoso il tritolo dell’Isis o l’indolenza di chi dovrebbe trasmettere amore per il passato? Per contrastare quest’ultima catastrofe non serve l’esercito: basterebbe cambiare orizzonte culturale.

L’archeologia si ferisce in tanti modi: con le distruzioni ad opera dell’uomo o della natura, con i traffici illeciti ma anche non mettendo a valore tutto il suo potenziale relazionale. Quest’ultima è una modalità in apparenza non cruenta, ma inesorabilmente dannosa quasi quanto il fuoco che ha distrutto di recente la Villa romana di Faràgola, per gli effetti nefasti che produce nel tempo sulla società.
“Archeologia ferita. Lotta al traffico illecito e alla distruzione dei beni culturali” è il tema del Seminario Internazionale organizzato dal Mann di Napoli, una due giorni con la collaborazione dell’Università di Napoli Federico II.
Un confronto per la salvaguardia del patrimonio che ha coinvolto Magistrati, Forze dell’ordine, giuristi, esperti e grandi Musei nazionali (Parco di Pompeii, Parco di Paestum, Museo Salinas-Polo regionale di Palermo per i Parchi e Musei Archeologici) internazionali (l’Ermitage (Russia), il Getty Museum (USA) e il Museo del Bardo (Tunisia). Un’opportunità di enorme interesse… se a qualcuno volesse interessare.
La memoria ferita
L’Italia archeologica è un campo di battaglia disseminato di ferite aperte: siti scoperti, poi ricoperti dal disinteresse e ripiombati nell’oblio, luoghi della memoria abbandonati ad un ineluttabile e polveroso destino. Una maledizione che da sempre accompagna la pratica archeologica, almeno di quell’archeologia che non si è mai preoccupata – o, forse, non ha mai voluto – prendere coscienza del ruolo sociale che svolge preferendo, per inerzia, rimanere ancorata al culto dell’oggettistica.
Una prospettiva miope che ha separato sempre più i luoghi della storia dalle persone che in quei luoghi vivono oggi e che hanno il diritto di far entrare nel loro presente quel passato che appartiene anche a loro.
Se l’archeologia non riusciamo a farla vivere, a farla entrare dentro la nostra vita quotidiana per comprendere quanto incida nelle scelte di tutti i giorni, difficilmente riusciremo a tutelarla.
Archeologia pubblica: ovvero, come innescare un processo culturale
L’archeologia “pubblica” per definizione appartiene alla comunità: la racconta, la valorizza e, soprattutto, costruisce un dialogo con il territorio. È un processo partecipativo di creazione di conoscenza e identità basato sul coinvolgimento attivo delle comunità. Innescando questo processo culturale il passato diventa identità sociale: è così che un percorso che inizia dalla comprensione e dal rispetto arriva alla tutela.
Contro l’incuria e il vandalismo che distruggono il nostro patrimonio occorre saper instillare gli anticorpi di quella cittadinanza attiva. Peccato che una tale “rivoluzione buona” venga sempre evocata dalle istituzioni e quasi mai favorita nella prassi che mettono in campo. Perché la rivoluzione si deve poter fare: con efficaci azioni di promozione culturale e sociale, partendo dall’asilo fino ad arrivare alla rete, dall’attivismo prescolare a quello digitale. Per favorire questo cambio di orizzonte servono nuovi percorsi di formazione professionale nelle varie discipline del Patrimonio Culturale (non solo archeologico).
Ok, questo ce lo diciamo da tempo. Ma quand’è che capiremo che questa formazione va fatta soprattutto nei settori della comunicazione e della gestione dei beni archeologici? Altrimenti, come al solito, tutto sarà lasciato alla buona volontà dei singoli.
E, già che ci siamo, diciamo chiaro anche che si tratta di una scelta politica, non solo strategica. Iniziare dall’educazione al patrimonio vuol dire creare conoscenza, senza la quale non può esserci né consapevolezza né azione civica. Ma significa anche credere che nella moderna società della conoscenza non può esistere separazione netta tra ricercatori e cittadini.
Le social community: le nuove piazze dove si raduna la cittadinanza attiva
Le piattaforme sociali, per eccellenza luoghi di condivisione della conoscenza, possono svolgere un ruolo determinate nella formazione di questa coscienza civica sensibile alla salvaguardia e tutela del patrimonio culturale.
Sono ecosistemi online che perseguono un interesse comune, fondati sull’interazione tra le persone che costituisce a sua volta il vero momento di crescita e genera valori. I motivi che favoriscono le dinamiche di coesione, rafforzano le motivazioni individuali alla partecipazione e al raggiungimento dell’obiettivo a vantaggio della community nel suo insieme. Il mezzo, in sé, non è né buono né cattivo: vogliamo imparare a capire come destinarlo a una buona causa?
Segnali di accesso
Ricordiamoci sempre: i social media sono un’estensione della realtà, degli amplificatori di segnale che per funzionare efficacemente hanno bisogno di input chiari in ingresso. In assenza di questi comprensibili “segnali di accesso” si rischia solo di amplificare il rumore del nulla.
#faràgolasiamonoi
Secoli di storia andati in fumo in una notte lasciano sempre cicatrici dentro. Facciamo in modo che Faràgola non venga ferita due volte, dai barbari e dall’indifferenza: ricominciamo da capo, ma proviamo a costruire una nuova narrazione. Per esempio, proprio partendo dal gesto vandalico. Perché, invece di rimuoverlo (come e se sarà possibile), non raccontiamo ai bambini quello che è successo, senza foglie di fico? Magari, se non facciamo predicozzi e li ascoltiamo, saranno loro a farci capire l’assurdità profonda di fatti come questo.
Trasformare la realtà, per quanto squallida, in una prospettiva per il domani: solo così le ferite inferte possono trasformarsi in feritoie di speranza, a patto che siamo capaci di guardarci dentro.
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