Ripensare la sfera pubblica dopo i social network

Inizio 2018, Zuckerberg annuncia di voler cambiare Facebook dando meno spazio ai media e più ad amici e parenti, per dare più importanza ai legami umani. In realtà i temi erano molto più complessi

Ripensare la sfera pubblica dopo i social network
Jaap Arriens / NurPhoto 
 Mark Zuckerberg

Inizio 2018, Zuckerberg annuncia di voler cambiare Facebook dando meno spazio ai media e più ad amici e parenti, per dare più importanza ai legami umani. In realtà i temi erano molto più complessi, come provavo ad analizzare proprio qui su AGI.

Laddove si può ancora ironizzare affermando che fortunatamente non viviamo (ancora) in una puntata di Black Mirror, oggi ci troviamo di fronte allo sdoganamento del sistema di social credit, proprio da parte di Facebook che ha iniziato ad assegnare ai suoi utenti un punteggio per misurarne credibilità e reputazione. Motivazione ufficiale? La lotta contro le fake news e contro la violenza digitale.

Funziona? Non è dato saperlo, e del resto nessuno ha pensato poi di avvisare gli utenti. La notizia, pubblicata inizialmente dal Washington Post, non è stata molto rilanciata e non si capisce quanto gli scandali abbiano sopravvenuto su tutto il resto. Piuttosto, sembra che l’assuefazione a certe dinamiche abbia raggiunto livelli preoccupanti: in Italia il dibattito sulla necessità di affrontare seriamente le problematiche legate allo strapotere dei colossi di Silicon Valley stenta a decollare.

Che il nostro paese rappresenti un po’ un anomalia in questo campo lo conferma il fatto che, su segnalazione di un gruppo NoVax, Facebook ha bannato il noto debunker David Puente, reo di aver tentato di moderare una vera e propria shitstorm socialmediatica, tra l’altro ai danni di un senatore pentastellato. Segno che ormai in ambito social si vive in una realtà a volte paradossale, anche pericolosa, dove lo sfogo di pancia viene premiato perché in fondo l’utenza, la massa di utenti, ha sempre ragione. E su questo, del resto, Zuckerberg ci aveva avvisato proprio a inizio 2018.

 

 

Tutto ciò non è ancora sufficiente per affermare che la distopia di Black Mirror sia viva e incarnata nel social network blu più famoso del mondo, ma è impossibile ignorare che Facebook con grossa fatica e non troppa chiarezza gestisce il controllo dei contenuti e delle dinamiche d’interazione all’interno del prorio ambiente mediologico. Ancora più preoccupante è il combinato disposto di controllo e censura così malamente strutturati e le perduranti lacune nella moderazione, il cui perdurare potrebbe configurare un assetto deleterio e pericoloso per le future campagne elettorali, ma più in generale per tutte le questioni di interesse sociale largamente dibattute.

Considerando poi che l’universo Facebook è decisamente ampio e comprende quelli che in passato erano suoi competitor, non si può allora ignorare la storia di Ricardo e Alberto Flores, persone falsamente accusate di sequestro di bambini su WhatsApp e per questo linciate e bruciate vive dalla folla in Messico. Ciò conferma che il potere di influenza sociale del gigante di Silicon Valley necessiti di una seria regolamentazione, o per meglio dire di un processo di governance. Se in Europa le bufale producono ban, shistorm, battaglie a colpi di like, è evidente come in altri paesi si rischi molto di più, come testimonia questo caso e molti altri, sia in America Latina che in India.

Leggi anche: Assurdo linciaggio in Messico per una fake news su WhatsApp

Come già argomentato in un precedente articolo di questa serie, la disintermediazione prodotta dai social media non sempre produce i grandiosi effetti che l’utopismo tecnologico prevede, anzi spesso  tende a esacerbare dinamiche sociali tutt’altro che positive. Come sostiene Walter Quattrociocchi, “la polarizzazione non fa che produrre maggiore segregazione degli utenti e ciò rende tanti di noi sempre più deboli. Perché tutti  siamo un po' creduloni e siamo esposti al rischio di credere, o meglio aderire, a tantissime narrazioni che ci sono offerte".

Non resta allora che constatare la perdita del valore sociale della verità, a favore di tante piccole post-verità autopoietiche e autoreferenziali, una sorta di neo-tribalismo dove il pensiero misticheggiante prevale come espressione egemonica, non importa se solo transitoria o effimera, di un certo gruppo social(e).

 

 

Sembra un 1984 qualsiasi, ma il 2018 verrà ricordato soprattutto per lo scandalo Cambridge Analytica e ancora sta montando un altro scandalo analogo, se non maggiore per molti versi: secondo l’inchiesta del New York Times, “la strategia di Facebook è quella di "rinviare, negare, sviare", in situazioni di evidenti difficoltà, oltre ad attaccare in maniera subdola”.

Come già detto altre volte, Facebook difficilmente farà la fine di MySpace, la sua massa di utenti lo rende troppo grande per fallire e nonostante i rallentamenti imposti dagli scandali è chiaro che procede in maniera spedita verso l’implementazione di nuove feature per catturare le persone all’interno del proprio recinto interattivo: realtà virtuale con Oculus Rift, pagamenti bancari e prima  o poi criptovaluta, funzioni di market avanzate. Ma i segni di una lenta erosione sono evidenti, con una buona parte del marketing che è stata rilanciata con decisione verso Instagram, dove l’utenza è più giovane e la tendenza al visual concede ampi margini per comunicare con leggerezza.

Il social blu è ormai diventato un ambiente di guerra per l’informazione, dove si combatte per l’egemonia culturale e ormai sembra chiaro che uno schieramento politico Facebook l’ha sempre avuto. Se gli utenti sono troppo anestetizzati per accorgersi di quanto accade, allora la necessità di una media governance da affidare a organismi terzi, come la Comunità Europea, appare sempre più  inderogabile.



Se avete correzioni, suggerimenti o commenti scrivete a dir@agi.it