Cosa perde il cinema italiano con la morte di Ermanno Olmi

​Con lui se ne va un cantore della civiltà contadina ormai tramontata, ma anche un regista onirico, attento ai dettagli storici e a un’escatologia cristologica senza salvezza dai peccati

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 Ermanno Olmi

Se n’è andato un grande vecchio. Tra gli ultimi registi dell’immenso cinema italiano, Ermanno Olmi (Bergamo, 1931) se n’è andato quattoquatto, dopo una malattia che l’aveva già segnato negli anni ’80 ed è tornata a riprenderselo nell’ospedale di Asiago, trascinandoselo con la commare secca a 86 anni. Di sé Olmi aveva mantenuto la stretta di mano salda e lo sguardo intenso, come le sue idee che qualche critico definisce visionarie. Ma non c’era nessuna visionarietà in lui, semmai una pacata adeguatezza al reale, al racconto della gente comune che pareva accostarlo all’ultimo Pasolini ma senza nessuna ipotesi di remissione dei peccati, di nostalgie bucoliche o ipotesi di rinascita in un mondo migliore. Un onirismo, quello di Olmi, che privilegia il sogno e la metafora, un realismo magico che anziché essere ambientato in Sudamerica aveva come protagonisti uomini e donne del Bergamasco, volti e gesti dell’Italia contadina e cattolica. Del profondo nord che l’aveva visto venire al mondo, segnandolo.

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 Ermanno Olmi

Quell’Italia ha dato al regista dolori e fama, e vari premi, buon ultimo un leone d’oro alla carriera nel 2008. Una caterva di documentari, varie opere incompiute e una sequela di successi, a partire dall’Albero degli zoccoli che palmeggiò a Cannes nel ’77 narrando la vita degli ultimi, una saga contadina della sua terra, e dunque d’un mondo agli sgoccioli che tramontava per fare spazio all’abbandono delle campagne seguito  e neppure la depressione economica può far rinascere. Ma non c’era solo il mondo degli ultimi, la fine di un’epoca, nell’orizzonte ottico della macchina da presa di Olmi. C’era l’attenzione al dettaglio storico, come nel Mestiere delle armi, gioiellino dedicato agli ultimi giorni di vita dei Giovanni dalle Bande nere, capitano di ventura travolto dalla tecnologia del suo tempo – una ferita d’arma da fuoco, lui che nessuno spiedo poteva battere – o in Torneranno i prati, ultimo suo film sulla vita di trincea sull’altopiano d’Asiago, tratto dai racconti di De Roberto sulla Grande guerra.

C’era, soprattutto, l’affabulazione nelle sue opere, l’escatologia cristologica che in Centochiodi – dove persino a Raz Degan è consentito ben figurare – si fa denuncia della cultura libresca e profezia amara d’un impossibile ritorno di Cristo sulla terra. C’è – sempre – la visione d’una Chiesa che non è se non dalla parte degli ultimi e dei derelitti, come nel Villaggio di cartone. Ché la Chiesa, quella ufficiale, per lui aveva scordato il messaggio evangelico delle origini, come aveva confidato in una lettera aperta del 2013, e poco gl’importava. Ma, nonostante tutto, l’apocalisse ventura restava a lieto fine, come confidava nell’autobiografia edita da Rizzoli nello stesso anno. Una speranza nella quale Cristo, il suo o chi per lui, ora lo starà confortando, magari.



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