I Robot d’Oro “vanno dai fornitori, pilotano le macchine, portano a passeggio i bambini, nelle ore di libertà affollano via Roma, via dei Mille, soprattutto via Caracciolo. Posseggono perfino un linguaggio per comunicare tra loro”. Se uno chiede “che pensi di me” però declinano: “Spiacente, ma non sono stato condizionato per rispondere a questa domanda”. Possono invece pregare.
Questi stralci non sono di adesso, ma scritti oltre cinquant’anni fa. Non tolti da una novel di fantascienza americana – sarebbe banale – bensì da un’opera nostrana e decisamente letteraria: “L’amara scienza”, forse il più ricordevole romanzo del napoletano Luigi Compagnone, pubblicato nel gennaio 1965.
I robot nel frattempo hanno fatto davvero tante cose: non solo “pilotano le macchine”, ma sciano alle Olimpiadi invernali e rischiano di diventare soggetti d’imposta se assunti in azienda. Ormai articolare preghiere, come immaginava Compagnone, sarebbe per loro assai facile, se si pensa a come ha (quasi) brillato l’androide Sophia nella conferenza stampa al Web Summit di Lisbona. Nel romanzo del ’65 uno dei protagonisti si limitava a ipotizzare che il Robot d’Oro salmodiasse il rosario con sua sorella Lucia, che infine gli si raccomandava: ‘Robot, ricordami nelle tue preghiere’. Certo che ce ne vuole per superare il Test di Turing, anche se Dan Brown con “Origin” s’è portato avanti con l’infusione dell’intelligenza artificiale al robot Winston, sidekick del futurologo Edmond Kirsch in cui l’autore ha ritratto Ray Kurzweil, suo guru prediletto.
Ai tempi di Sophia chi si ricorda ancora della nostrana Caterina? Rarefatta nella memoria dal passaggio del tempo – quasi quarant’anni – e dallo scarso esito artistico, lei fu l’androide coprotagonista del film che Alberto Sordi diresse e interpretò. Voleva offrire, “Io e Caterina” (1980), una satira del maschilismo che non venne bene, o una parabola sull’avvento dei robot di cui solo ora si può dire che forse riuscì meglio. Sordi e Rodolfo Sonego, che con lui stese la sceneggiatura, instillarono nel robot tuttofare Caterina una (non programmata) intelligenza artificiale farcita, più che di sentimenti, dei classici risentimenti di un borghese ménage di coppia.
Cosa rende attuali quanto un best seller americano, uscito nel 2017, certe pagine di un romanzo napoletano del ’65 e una commedia dell’80 che ebbe a interprete l’italiano medio par excellence?
Qualcuno sarà tentato di cercare, fra le innumerevoli, una risposta andando anziché avanti più indietro, dove finirà probabilmente per imbattersi nel “Golem”, il romanzo con cui Gustav Meyrink nel 1915 popolarizzò la leggenda dell’androide cabalistico cui il rabbino Loew di Praga insufflò, provvisoria, la vita. C’è, sulla leggenda del Golem, il primo accenno nella Germania del 1200 con le prescrizioni del talmudista ‘El’azàr di Worms. Ma prima ancora quel vocabolo ebraico è citato, per una volta sola, nella Bibbia al Salmo 138. San Girolamo nella Volgata traduce Golem con “Imperfectum”. È qualcosa di embrionale e ravvolto ancora, che la versione biblica della Cei rende come “ancora informe”.
Sophia, Caterina, i Robot d’Oro, anche il Winston di Dan Brown e i molteplici fratelli sembrano attesi da sempre con la relativa sfida alla sanzione di “Imperfectum”. Il sogno di cancellarla mantiene attuale qualsiasi opera in cui se ne parli.