La forbice fra ricchi e poveri si va sempre più allargando sia all’interno delle nazioni nazionale. I poveri non possono essere consumatori e quindi, come ha rimarcato Zygmunt Bauman, in un mondo basato sul consumismo finiscono per non essere tollerati. Ironicamente si può dire che i poveri dei Paesi sviluppati stanno peggio di quelli dei Paesi non sviluppati, perché devono sforzarsi di vivere in un mondo costruito per i ricchi.
A livello mondiale l’1% della popolazione possiede ricchezze maggiori del restante 99% e si stima che circa 1 miliardo di persone soffra la fame. In Italia l’1% più ricco possiede il 23,4% della ricchezza nazionale netta. Negli ultimi anni il coefficiente di Gini, che misura le disuguaglianze nella distribuzione del reddito, in Italia è cresciuto più che negli altri Paesi ricchi.
Un’indagine estesa a molti Paesi sviluppati indica che i problemi sociali e sanitari sono tanto più gravi quanto maggiore è la disuguaglianza economica, indipendentemente dal reddito medio. Nel Regno Unito, per esempio, si è stimato che dimezzando la disuguaglianza di reddito si ridurrebbero del 65% le malattie mentali e aumenterebbe dell’85% il livello di fiducia reciproca, con grande beneficio per l’intera società. Da queste ricerche emerge che se si vuole aumentare la qualità della vita nei Paesi sviluppati si devono ridurre le disuguaglianze, anziché inseguire un’ulteriore crescita economica come si è fatto negli ultimi cinquant’anni.
È anche chiaro che ridurre le disuguaglianze implica porre su basi nuove il tema del lavoro, il cui obiettivo deve essere un aumento della ricchezza della società nel suo complesso, non della ricchezza individuale. Perché ciò avvenga, è necessario anche stabilire quali attività produttive debbano essere incentivate e quali progressivamente abbandonate.