Per quantificare e analizzare la sostenibilità tenendo conto della disponibilità di risorse rinnovabili si usano spesso due parametri. Il primo è l’impronta ecologica, definita come l’area di superficie terrestre in grado di fornire le risorse necessarie al consumo quotidiano e allo smaltimento dei rifiuti; la seconda è la biocapacità, che indica la capacità di produzione biologica della stessa fetta di superficie terrestre.
I due parametri sono quantificati usando l’unità di misura chiamata ettaro globale (gha), che corrisponde a un ettaro di spazio biologicamente produttivo. Con questi due indicatori si può valutare il bilancio ecologico di un’area, rivelando eventuali deficit o eccedenze.
Per il suo nome fortemente evocativo, l’impronta ecologica è usata da varie agenzie governative e internazionali. Molti scienziati però lo considerano un indicatore soltanto parzialmente significativo, perché ingloba in un unico numero fenomeni molto diversi. Essi sostengono che per promuovere adeguate scelte politiche si dovrebbero individuare indicatori di sostenibilità più specifici e mirati, come l’impronta idrica e l’impronta energetica. Questo è certamente vero, tuttavia l’impronta ecologica ha il grande merito di quanti care la situazione in modo comprensibile a tutti: un singolo numero dà un’idea generale - seppure non dettagliata - dell’abbondanza o della scarsità di risorse rinnovabili.
In base a stime recenti la Terra, con la sua naturale biocapacità, è in grado di sostenere un’impronta ecologica media per abitante di 1,7 gha, mentre in realtà il valore medio della nostra impronta ecologica è già da anni più elevato ed è in continuo aumento. Attualmente ha raggiunto i 2,8 gha per persona; l’umanità, in altre parole, sta consumando risorse e producendo rifiuti come se disponesse di oltre una Terra e mezzo.
L’Earth Overshoot Day è il giorno dell’anno in cui le risorse consumate raggiungono quelle che la Terra può generare nei 365 giorni. Nel 1992 questo giorno è stato il 21 ottobre, nel 2002 il 3 ottobre, nel 2012 il 22 agosto e nel 2016 l’8 agosto.
L’impronta ecologica non suggerisce soltanto che l’attuale modello di sviluppo è insostenibile, poiché l’umanità vive al di sopra della capacità rigenerativa della Terra, ma fornisce anche altri spunti di riflessione.
Tutti i Paesi occidentali hanno un’impronta ecologica di gran lunga superiore al valore medio di 2,8: sfruttano cioè «fette di pianeta» molto più grandi di quelle che spetterebbero loro, mentre altri Paesi ne utilizzano porzioni minime. Si stima che attualmente l’80% della popolazione mondiale viva in Paesi che utilizzano più risorse rinnovabili di quelle di cui dispongono.
Le nazioni più ricche e la Cina hanno un’impronta ecologica molto superiore alla rispettiva biocapacità, cioè vivono al di sopra delle proprie possibilità. Invece molti Paesi poveri, specialmente in Africa, hanno biocapacità superiore all’impronta ecologica. Non deve pertanto sorprendere che la Cina, con biocapacità inferiore all’impronta ecologica (che è in forte aumento), sia molto interessata ad accordi commerciali e all’acquisto di terreni e risorse minerarie nei Paesi africani.
È naturale concludere che i Paesi ricchi dovrebbero ridurre l’insostenibilità del loro sistema economico. In realtà questo non avviene perché, come già detto, ogni richiamo alla riduzione dei consumi contrasta con l’idea sostenuta da molti economisti (e fatta propria dalla maggior parte dei politici) secondo cui è necessario che il pil aumenti almeno del 2-3% l’anno. Ne conseguono pressanti inviti a consumare di più e incentivi alle rottamazioni.
Questo è il modello di sviluppo della nostra epoca: il consumismo, la civiltà dell’usa e getta. Appare chiaro, tuttavia, che nei Paesi ricchi il pil non potrà continuare ad aumentare all’infinito; forse un aumento potrà realizzarsi ancora per qualche anno o qualche decennio, ma a scapito dei Paesi più poveri. Questo aggraverà i problemi ecologici, sociali e politici su tutto il pianeta: è un conto che dovranno pagare principalmente le giovani generazioni di oggi.