Gli effetti dell’alleanza in campo energetico (e non solo) tra Stati Uniti e Arabia Saudita

Di cosa hanno discusso il principe bin Salman e il ministro americano per l'energia. C'è di mezzo il nucleare

Gli effetti dell’alleanza in campo energetico (e non solo) tra Stati Uniti e Arabia Saudita
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Il comunicato stampa è assolutamente essenziale: “Il principe saudita, vice primo ministro e ministro della Difesa, Mohammed bin Salman (Mbs), ha incontrato domenica il segretario di Stato Usa all’Energia, Rick Perry a Riad”. I due hanno discusso “della partnership strategica tra i rispettivi Paesi, inclusa l’energia, l’ambiente e gli investimenti nelle infrastrutture e nel settore petrolchimico”. Il principe ha confermato “il forte intento di stabilizzare il settore energetico e quello dell’offerta in maniera sostenibile per rispondere agli interessi dei produttori di energia e dei consumatori”. Dal canto suo, Perry, che su Twitter ha raccontato le tappe principali della visita, ha detto come “sia stato un onore incontrare Sua Altezza Regale il principe Mohammed bin Salman” rallegrandosi della “forte collaborazione tra i due Paesi”.

Questa la facciata. Ma di cosa hanno discusso i due? Secondo il quotidiano israeliano Haaretz che ha le antenne sempre ben dritte su tutto ciò che succede in Medio Oriente, uno dei temi centrali è stato il nucleare . Il principe, che sta rivoluzionando il Paese, ha espresso al ministro statunitense la volontà di non perdere la possibilità di poter arricchire l’uranio, un processo che può avere un utilizzo militare. D’altronde c’è un forte pressing anche da parte dell’industria americana sull’amministrazione Trump affinché acconsenta ai piani sauditi. Diverse imprese Usa sono attratte dai piani dell'Arabia Saudita per la costruzione di reattori nucleari. Secondo il portale Middle East Monitor, che cita tre fonti del settore, le autorità saudite hanno accolto con favore tale attività di lobbying.

L’ostacolo da superare è la legge statunitense che non permette una tale eventualità: è necessario infatti un accordo di cooperazione pacifica per il trasferimento di materiali, tecnologie e attrezzature nucleari ad un altro paese. Ad ottobre, Riad ha inviato una richiesta di informazioni ai fornitori mondiali di reattori nucleari, un primo passo verso l'apertura di una gara multi-miliardaria per la costruzione di almeno 2 reattori atomici. Secondo Reuters la compagnia statunitense Westinghouse sarebbe in trattative con altre società americane per formare un consorzio e formulare un'offerta.

Insomma il principe Salman nella sua Vision 2030 punta, tra le altre cose, a fare di Riad anche una potenza militare oltreché energetica e finanziaria. Il tutto in funzione anti iraniana. Non bisogna dimenticare infatti che in un’intervista al New York Times Mbs definì la guida suprema iraniana l’ayatollah Ali Khamenei il “nuovo Hitler del Medio Oriente”.

Ufficialmente, assicurano a Riad, le centrali nucleari servirebbero solo a produrre elettricità che verrebbe utilizzata per il mercato interno, nell’ottica di una maggiore diversificazione delle fonti e per esportare più petrolio all’estero. L’obiettivo è siglare il contratto di costruzione del primo reattore il prossimo anno. Riad vuole installare fino a 17,6 gigawatt (Gw) di capacità atomica entro il 2032. Questa è una prospettiva promettente per l'industria del nucleare globale in difficoltà dopo l’incidente di Fukushima e gli Stati Uniti dovrebbero affrontare la concorrenza di Corea del Sud, Russia, Francia e Cina per la gara d'appalto iniziale.

Sullo sfondo (nemmeno tanto) il petrolio. Come detto nel corso del meeting Opec Plus c’è stato un braccio di ferro tra Arabia Saudita e Russia. All’incontro tra bin Salman e Perry era presente anche il ministro dell’Energia saudita Khaled al-Falih che ha tenuto a sottolineare che i produttori di petrolio potrebbero iniziare a discutere di un cambio di policy a giugno “una volta che le prospettive del mercato saranno più chiare” aggiungendo di aspettarsi una estensione dei tagli alla produzione di greggio anche nella seconda metà del 2018. Un messaggio chiaro alla Russia e ai produttori di shale oil americani. 



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