Mentre negli Stati Uniti si discute su cosa fare per arginare lo strapotere delle grandi aziende tecnologiche (come il discusso piano Warren), in Europa si è già passati all’azione. E le scelte prese, le regole decise, l’approccio utilizzato stanno già facendo scuola, anche negli Usa. E l'Economist senza mezzi termini ha consigliato ai giganti tecnologici americani di guardare con maggiore attenzione alle decisioni prese in Europa.
Il motivo è che, nonostante la maggior parte delle aziende tecnologiche sia ad oggi negli Usa (il rapporto con l’Europa è di 20 a uno), è a Berlino e Bruxelles che si sta decidendo il loro futuro. E, un po' paradossalmente, la ragione principale è proprio nel grande ‘svantaggio’ che finora ha caratterizzato il Vecchio continente: quello di essere appunto ‘Vecchio’, il luogo del passato, ma è proprio dal suo passato che stanno arrivando i consigli su come agire nel presente. Anche con Google, Facebook e Amazon.
L'Ue lontana dalle lobby tecnologiche
Le questioni in ballo, ripercorse da l'Economist, sono quelle che stanno caratterizzando il dibattito pubblico da qualche anno: quali aziende posseggono i nostri dati, cosa può farne, i limiti della privacy dei cittadini e la necessità percepita da questa parte del mondo di dover regolare il mercato per evitare che la formazione dei monopoli digitali non impedisca la nascita di nuove aziende che possano ribaltare questi monopoli.
“Il fatto che l’Europa abbia vissuto la dittatura la rende vigile alle questioni della privacy. I suoi legislatori sono meno esposti alle lobby tecnologiche di quanto lo siano quelli degli Stati Uniti, e i loro tribunali hanno una visione più aggiornata dell'economia. La mancanza di imprese tecnologiche in Europa aiuta a prendere una posizione più obiettiva”, scrive l’Economist. Sarebbe quindi proprio il nostro ’essere rimasti indietro' mentre dall’altra parte dell’oceano si formavano questi monopoli a fare in modo che dall’Europa sia diventata oggi il faro di quanti sentono con urgenza la necessità di regolamentare i giganti tecnologici.
Privacy
Un approccio che parte da constatazioni piuttosto semplici, ammette l’Economist, eppure non percepite finora negli Usa. La prima è che i miei dati in Internet sono i miei. Ognuno dovrebbe essere in grado di sapere chi vi accede o decidere se può farlo. È il principio su cui si basa la Gdpr. Da qui il passo successivo, che nell’ottica del regolatore europeo è consentire l'interoperabilità tra i servizi, in modo che gli utenti possano passare da un fornitore all'altro, scegliendo magari società che offrono migliori condizioni finanziarie o che trattano i clienti in modo più etico - l’esempio dell'Economist è piuttosto calzante: immaginate un Facebook fatto meglio, immaginate che vi piaccia e ci vogliate passare, beh dovreste poterlo fare importando i vostri post e contatti, perché quei contatti e quei post sono i vostri non di Facebook.
Mercato
Il secondo principio riguarda il mercato e i monopoli, e si basa sul fatto che le aziende non possono escludere la concorrenza, o acquisirla quando diventa troppo pericolosa: pensate a Google shop e alla multa decisa dall’Unione europea, l'ultima di una serie di multe rispettivamente di 2,3, 4,3 e 1,5 miliardi di euro.
Un approccio che ha dei rischi: la Gdpr secondo l’Economist è una legge che finora si è mossa in modo goffo e sulla protezione della privacy non sembra essere stata finora efficiente. Ma ha cominciato a fare scuola: la California si è dotata di una legge simile e l’Europa in questi mesi sta continuando a cercare strade e risposte adatte a regolamentare il settore. Che è qualcosa che tutti vogliono. E se dovesse riuscirci, il suo diventerebbe il primo caso. E il primo modello da seguire.