Come riporta una ricerca pubblicata sulla rivista BMJ Open, il 17% degli adulti tra i 18 e i 70 anni sostiene di sentirsi solo. E i social media, in questa triste partita, possono giocare un ruolo importante, anche se non sempre esplicito. Affidare un messaggio ai propri profili con scritto: "Sono le 2 di notte, sono sveglio e sto bevendo un bicchiere di vino da solo” potrebbe equivalere ad affermare, anche no del tutto consapevolmente: ”Sono solo”.
Lo studio, a firma di alcuni ricercatori dell'Università della Pennsylvania, ha preso in considerazione 400 milioni di tweet pubblicati da utenti che vivono nello stato americano dal 2012 al 2016. Gli autori hanno isolato i tweet che contenevano parole come “alone” o “lonely”, soffermandosi soprattutto sugli utenti che avevano postato più di 5 messaggi contenenti queste specifiche parole e li hanno confrontati, attraverso un processo di elaborazione del linguaggio naturale, con altri, simili per età e sesso, che non presentavano tale caratteristica. Non è stato chiesto ai soggetti analizzati se il tweet contenente quelle parole fosse stato fatto dopo aver provato quel particolare stato emotivo. L’elaborazione statistica di questi dati è stata conclusa nell’ultimo anno e mezzo.
La solitudine, facendo un passo indietro, viene definita dallo studio come una discrepanza tra quello che una persona desidera e le sue reali ed effettive relazioni sociali. Ma compare spesso anche davanti a patologie più complesse che riguardano i disturbi mentali cronici. Concorre, inoltre, all’aumento del rischio di sviluppare malattie cardiache, ictus, depressione e demenza.
Gli autori di questi tweet hanno manifestato caratteri comuni: hanno confidato i loro problemi nel relazionarsi; hanno raccontato molte cose personali senza sapere chi li avrebbe letti, e quindi ascoltati; hanno imprecato tanto, esprimendo rabbia o ansia; hanno citato con più frequenza alcol e droghe.
Sono, infine, post che spesso compaiono la notte, fatti da persone che faticano a prender sonno, che subiscono disturbi psicosomatici frequenti, o che vorrebbero cambiare la loro vita. Oltre a mangiare in maniera malsana e irregolare.
Un po’ di numeri: più di 26 mila utenti hanno utilizzato su Twitter parole come “lonely” e “alone”. Di questi oltre 6 mila lo hanno fatto più di cinque volte. L’età media di questo gruppo ristretto è 21 anni e il 69% sono donne. Le parole maggiormente associate a questo discorso sono: “myself”, “never”, “want somebody”, “I need”, “no one to”, “I can’t”. A confronto, le persone che non usano costantemente queste formule iniziano i loro messaggi citando altre persone o dedicando tempo a passioni come lo sport, il tempo libero, o azioni di gruppo.
Lo studio, che ovviamente non può rappresentare una condizione generale della popolazione, vuole dimostrare come per ridurre la morbilità del fenomeno, ovvero la frequenza percentuale di una malattia in una collettività, si debba passare attraverso la conoscenza di chi vive l’esperienza della solitudine. Piattaforme come Facebook, Twitter e Instagram possono essere studiate per far luce sullo stato di salute e il benessere psicofisico di un determinato individuo.
Secondo i ricercatori, che hanno utilizzato un algoritmo predittivo, sono uno strumento assai potente: “Pur dando priorità alla privacy delle persone, in particolare limitando il numero di approfondimenti sulla salute che possono essere raccolti dai social, questa ricerca rappresenta l'opportunità delle piattaforme digitali di fornire non solo elementi sullo stato generale di salute ma potenzialmente possono essere utilizzate anche per prevedere interventi”.
Combattere l’isolamento, per chi si occupa di salute pubblica, è una sfida importante. Una migliore comprensione di come la solitudine viene espressa e comunicata online potrebbe dare informazioni importanti per sviluppare strategie più efficaci.