Il digitale è la chiave per aprire l'Italia al futuro. Lo dicono i numeri

L'Italia ha un potenziale enorme, ancora inespresso. Il digitale può far decollare il nostro export e creare migliaia di posti di lavoro

Il digitale è la chiave per aprire l'Italia al futuro. Lo dicono i numeri
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L’Italia è al 25° posto in Europa nel DESI, l’indice di digitalizzazione, ma è anche al secondo posto per produzione manifatturiera. Un paradosso evidente perché oggi, e sempre di più nel futuro, l’economia è, di fatto, soltanto economia digitale. 

Questo non vuole dire che scompariranno le grandi e piccole imprese tradizionali che hanno fatto la storia e la ricchezza dell’Italia ma semplicemente che, se vogliono competere e vincere sui mercati globali, queste aziende dovranno fare di ICT, e-commerce e cloud i loro nuovi cacciavite e martello.  

Perché in Cina il 45% degli acquisti del lusso avviene ormai tramite digitale, perché le nostre auto e i nostri frigoriferi devono parlare con lo smartphone, perché il marketing si fa sui social. Perché ormai non esistono più le industrie per settori, quella di prodotto e quella di servizi, ma solo una unica industria interconnessa, nella quale il digitale diventa fattore trasversale abilitante dell’economia e allo stesso tempo una economia di per sè. 

L'enorme potenziale inespresso dell'Italia

Le nostre imprese fanno già moltissimo e il nostro sistema produttivo ha un capitale economico e industriale incredibile. 

  • 500 miliardi di export conquistati euro su euro,
  • un brand Made in Italy che è il terzo al mondo,
  • 6.819 startup innovative che danno lavoro a 36 mila persone.

Ma sul digitale possiamo fare molto di più perché solo 40 mila pmi vendono online contro le 200 mila in Francia e il fatturato di e-commerce incide per il 9% sui ricavi contro il 17%  della media UE. 

C’è uno squilibrio, allora, fra questo 25°e questo 2° posto e il mercato non tollera squilibri: ma sta a noi scegliere se riaggiustarlo scendendo sotto Francia e Spagna nella classifica della manifattura, o, invece, risalendo la classifica della digitalizzazione. 

Se la risposta giusta è la seconda, per me l’unica risposta possibile, dobbiamo cogliere la sfida di Industria 4.0, che vale 4 punti di PIL nei prossimi tre anni perché la digitalizzazione dei prodotti e dei servizi potrebbe aumentare le entrate delle imprese di 110 miliardi nei prossimi cinque e la sharing economy da sola potrebbe far passare gli introiti globali dagli attuali 13 miliardi a 300 nel 2025. 


I rischi del digitale per i posti di lavoro


Opportunità non solo per chi produce ma anche per chi lavora: se per McKinsey il 50% dell’occupazione è a rischio di essere sostituita da sistemi automatizzati entro il 2055, possiamo subire il problema scegliendo di tassare i robot come proposto da Bill Gates o possiamo gestirlo creando, invece, le migliori condizioni perché possano nascere anche in Italia nuovi posti di lavoro ad alto valore aggiunto.  

L’automatizzazione, infatti, aumenterà la produttività globale di 1,4% l’anno. I consumatori avranno prodotti meno cari e in tempi più veloci, perché si dimezza il time to market, i tempi di fermo macchine e i costi di manutenzione. Più produzione, più domanda, più lavoro.  Insomma la tecnologia distrugge o crea posti di lavoro? La risposta è nessuno dei due: la tecnologia li redistribuisce.  

Già oggi il 22% delle posizioni digitali aperte in Italia non trova candidati. Secondo PwC serviranno quasi 1 milione di professionisti nel campo delle KETS entro 7 anni. E la Commissione europea ha stimato che in Europa fra 3 anni ci saranno 500mila posti di lavoro scoperti fra esperti digitali.  E se il mercato avrà bisogno di data analyst, e-reputation manager e sviluppatori mobile, dovremo essere capaci di formare le competenze tecniche e le soft skill di chi già lavora e di quel 60% di ragazzi che oggi studia per fare un lavoro che ancora non esiste.  

Cambia tutto e noi dobbiamo sbrigarci: oggi secondo l’Istat ben 22 milioni di italiani non hanno mai avuto a che fare con internet e il 50% della forza lavoro ha zero o scarse capacità informatiche. Sono limitate anche le competenze digitali all'interno delle imprese: solo 17 aziende su 100 impiegano addetti ICT in azienda e solo 12 offrono formazione informatica.  

Qualcosa però sta cambiando, anche in Italia

Ma qualcosa sta cambiando, anche in Italia:

  • abbiamo la buona scuola con i corsi di coding,
  • abbiamo l’alternanza scuola-lavoro,
  • abbiamo un piano Industria 4.0 che prevede di creare 1.400 dottori di ricerca, 200mila studenti universitari e 3mila manager specializzati su temi 4.0. 

La nostra sfida è fare del capitale umano la nostra vera materia prima.  Insomma c’è una industria forte e tradizionale che se però non sa cogliere le opportunità del digitale rischia il declino, ma se riesce a cogliere queste opportunità può essere ancora più forte e in crescita. Dove vogliamo stare?

Sta a noi scegliere quale risposta dare. Sta a noi decidere il cambiamento.  Come quello che abbiamo visto al FED - Forum dell’economia digitale - l’evento organizzato da Giovani Imprenditori di Confindustria e Facebook Italia il 22 marzo a Milano. Una occasione di confronto su economia digitale, posti di lavoro e robot, competenze e comunicazione. 

Per gli oltre 4500 iscritti all’evento e per chi era collegato in streaming e per chi non c’era, il FED vuole porsi come community del cambiamento, per fare dell’Italia la prima factory digitale del mondo.  Per questo, chiunque avesse voglia di contribuire, può partecipare visitando il sito e scrivendoci le proprie idee, invenzioni e progetti.  Proveremo a farle diventare imprese concrete, in attesa del #FED2018.