Il giornalismo si fa con le scarpe. E con il cuore
Il giornalismo non è morto, anzi gode di discreta salute. Almeno in Friuli Venezia Giulia, dove il cartaceo sembra addirittura meditare la sua rivincita

Il giornalismo non è morto, anzi gode di discreta salute. Almeno in Friuli Venezia Giulia, dove il cartaceo sembra addirittura meditare la sua rivincita, mentre i social network cominciano a deludere. Lo affermano due ricerche presentate in occasione di altrettanti festival ormai di casa da queste parti: Vicino/Lontano, la rassegna in memoria di Tiziano Terzani, che si chiude oggi, venerdì 19 maggio, a Udine, e Link, il festival del buon giornalismo figlio del Premio internazionale Marco Luchetta, tenutosi a Trieste a fine aprile. Entrambe le indagini hanno dedicato attenzione nel rilevare la fiducia dei cittadini nei media e la tipologia d’informazione preferita. La prima, “Progetto fiducia”, è stata promossa dall’Università di Udine e realizzata su un campione di 407 studenti di varie età (300 donne e 107 uomini, 297 under 30): l’aspetto più interessante emerso è che Internet è la prima fonte d’informazione per l’80,6 per cento del campione, dato che arriva al 91,6 per cento se si considerano solamente gli under 50; l’approvvigionamento delle news tramite il web batte persino la tv e precede i social, che si piazzano al terzo posto. Entrando nel dettaglio, scopriamo che un terzo degli intervistati (il 32 per cento) non si fida per niente dei social e quasi la metà (il 49 per cento) poco, mentre la fiducia massima è accordata alla carta stampata (quotidiani nazionali e locali); in cima alle notizie più ricercate c’è l’intrattenimento, seguito dalla cronaca nazionale, risultato su cui certamente influisce l’età prevalente del campione; quanto ai canali utilizzati, sui social notiamo una maggiore presenza delle donne (82,7 per cento contro il 74,8 degli uomini), che più degli uomini partecipano anche a gruppi di condivisione delle informazioni (35,7 per cento contro il 21,5), mentre tv locali, stampa e media sono utilizzati soprattutto dagli over 50.
Dati che hanno evidenziato l’opportunità di attivare un coordinamento stabile attorno a questo tema e in prospettiva un Osservatorio permanente dedicato all’evoluzione del giornalismo e alle nuove tecnologie, una proposta che ha immediatamente trovato l’adesione di Vicino/Lontano, che da diverse stagioni ospita le indagini curate dagli studenti dell’Ateneo friulano, e di Link, il festival del premio Luchetta giunto alla terza edizione, che il 21 aprile si è aperto — e non poteva essere diversamente — con un appello per la liberazione di Gabriele Del Grande, uno che il giornalismo lo fa con le scarpe. Come Tiziano Terzani, maestro del “giornalismo dal basso” celebre per i suoi reportage. Come Marco Luchetta, Alessandro Ota, Dario D’Angelo e Miran Hrovatin, gli inviati a cui il premio di Trieste è dedicato, morti per raccontare da vicino la guerra nella ex Yugoslavia i primi tre, assassinato assieme a Ilaria Alpi mentre indagavano sul traffico di rifiuti in Somalia il quarto. Come i tanti colleghi che ogni anno, da 14 anni a questa parte, vengono segnalati per aver narrato con particolare sensibilità le violenze subite dalle vittime più indifese, i bambini appunto. Gente insomma che del giornalismo ha una certa idea e che di recente è riuscita a spingersi fin dentro l’inferno di Mosul, un posto senza scampo per migliaia di bambini, o tra gli sfollati in Libano, uno Stato di 4 milioni di persone che ospita 1.200.000 profughi siriani. Ma anche tra le 400 mila donne violentate ogni anno nella Repubblica Democratica del Congo e nelle pieghe del lavoro minorile, che in Italia coinvolge oltre 260 mila bambini.
Il primato inossidabile della politica
Eppure, nonostante non manchino sguardi attenti che rischiano la vita, e a volte la perdono, per far conoscere la verità, non sono i bombardamenti in Siria né gli attentati in Europa le notizie più ricercate dagli italiani, e nemmeno gli incontri decisivi del campionato di calcio: in cima alla hit parade c’è ancora la politica, che conserva un primato a quanto pare inossidabile. Lo dice Newsparade, la ricerca realizzata da SWG a fine marzo su un campione di 1500 maggiorenni residenti nel nostro Paese (leggi qui la ricerca completa), che è stata presentata in apertura del festival. Interessanti gli spunti forniti per chi con le notizie ci lavora: innanzitutto c’è un tema a cui secondo gli intervistati i media non dedicano abbastanza spazio e attenzione, e sul quale ci sono ampi margini di miglioramento e investimento, ed è quello che comprende ambiente, salute e benessere, oggi molto attrattivo; i social network, contrariamente a quanto si potrebbe pensare e come evidenziato pure dalla ricerca friulana, non sono il canale principale a cui si ricorre per informarsi sulle ultime novità, neanche in caso di eventi traumatici come attentati, incidenti, terremoti: al primo posto c’è infatti la televisione, seguita a ruota dai quotidiani nazionali online; ai fruitori delle news sta a cuore la tempestività, ma anche gli approfondimenti successivi, la contestualizzazione del fatto, i dettagli, mentre non desta alcun interesse l’interpretazione del giornalista.
La maggioranza degli italiani ha ancora fiducia nel giornalismo
Nel complesso, tuttavia, il giornalismo viene promosso: più della metà degli italiani (precisamente il 56 per cento) ha ancora fiducia in questa professione, anche se 6 persone su 10 ritengono che i media non svolgano al meglio la loro mission di informare in libertà; il primato dell’affidabilità va anche in questo caso ai giornali di carta, incalzati da radio e tv, mentre in coda troviamo i talk show, sebbene una larga maggioranza di italiani, pur consapevole della spettacolarizzazione che praticano, apprezzi questo genere di programmi. Quanto al rischio bufale, di cui oggi si parla molto, gli intervistati ritengono che basterebbe un po’ di prudenza in più per verificare le notizie ed evitare certi errori.
Compito quest’ultimo tipico del giornalista, meglio di un buon giornalista. Un giornalista consapevole che alla base del suo lavoro c’è un unico imperativo etico: raccontare. Come diceva Anna Politkovskaja: «L’unico dovere di un giornalista è scrivere quello che vede». È quello che ha fatto nel corso di tutta la sua vita Tiziano Terzani, raccontandoci la fine della guerra in Vietnam, la Cina del dopo Mao, il crollo dell’Unione Sovietica, solo per fare alcuni esempi. È quello che hanno fatto Marco Luchetta, Alessandro Sasha Ota e Dario D’Angelo recandosi per l’ennesima volta in Bosnia, in particolare a Mostar, dove dovevano realizzare un servizio sui bambini senza nome, una cinquantina di vittime di tutte le etnie rimaste senza genitori e senza identità. Volevano far conoscere perché la gente non dimenticasse, perché il conflitto balcanico non finisse nel dimenticatoio, perché non avesse la meglio quella rimozione collettiva della guerra che era in atto da più parti. Inevitabilmente avevano finito, anche loro come tanti altri, col riempire di contenuti umanitari le loro missioni, contenuti umanitari che ritroviamo tutti nella Fondazione a loro intitolata nata poco dopo la loro morte: una realtà che accoglie e cura bambini e bambine provenienti da ogni parte del mondo e affetti da malattie non curabili nel loro Paese d’origine, ma che non chiude certo le porte ai triestini. Dal 1994, anno della tragedia di Mostar e della costituzione della Fondazione, oltre 700 bambini accompagnati dai loro familiari sono stati accolti nei tre centri, veri e propri microcosmi di convivenza che possono ospitare fino a 56 persone al giorno. Numerosi anche gli interventi di sostegno nei Paesi d’origine dei bimbi attraverso l’invio di medicinali, apparecchiature, il finanziamento di scuole e mezzi di trasporto. E poi il Premio giornalistico, nato nel 2013 per continuare nel lavoro iniziato dai tre inviati della Rai di accendere i riflettori sulle vittime più indifese di quell’atrocità che è la guerra, consapevoli che anche nel deserto più ostinato, nel conflitto più violento, possono attecchire semi di bene e di futuro, perché come diceva Paul Ricoeur «per quanto radicale sia il male, esso non è così profondo come la bontà. Qualunque sia il male commesso, in ogni uomo esiste una particella di bontà da tirar fuori».
Di particelle di bontà in Fondazione in questo periodo ormai pluridecennale ne sono scoppiate a centinaia, a testimonianza del fatto che come canta Jovanotti «tra il male e il bene è più forte il bene». Sono particelle che hanno tutte un nome e un volto: come Muhammad, 11 anni, che arriva dal Libano grazie all’interessamento di alcuni soldati italiani ed è in attesa di trapianto a causa di una grave forma di anemia; come Danielys, 9 anni, venezuelana, anche lei in attesa di un trapianto di midollo; come Siraj, 8 anni, iracheno yazida, che è arrivato a Trieste sulla sedia a ruote e ora mi passa davanti correndo; come Hatal, 12 anni, anche lui iracheno yazida, affetto da emofilia. Come i genitori che li accompagnano, sempre più spesso padri, che purtroppo non lasciano un lavoro, mentre le madri rimangono ad occuparsi del resto della famiglia. Come gli educatori, che trasferiscono nel lavoro la loro passione per l’umanità e non conoscono orari né cartellini. Come i tanti volontari, che ti accolgono al Centro raccolta senza abbandonare il sorriso neanche per un attimo. Come i tanti triestini (e non solo) che in occasione di una ricorrenza o della firma del 5 x mille si ricordano di quest’oasi di pace dove si coltiva solidarietà e fratellanza. Anche questa è fiducia nel giornalismo.