Negli ultimi anni il rapporto tra Facebook e il mondo editoriale italiano non è sempre stato idilliaco. Un po’ per colpa delle fake news e del clickbaiting, un po’ per colpa degli haters e dei troll che con i loro commenti inquinano discussioni e dialoghi, un po’ per colpa di algoritmi e sponsorizzazioni che hanno tentato di limitare, e influenzare, la tipologia di contenuti da pubblicare.
Certo è che nessun quotidiano, pur affermando di ricercare una sempre più larga indipendenza, ha avuto il coraggio dimostrato dal giornale brasiliano Fohla che, otto mesi fa, ha deciso di non aggiornare più il suo profilo (da quasi 6 milioni di like) rinunciando, di fatto, a una consistente fetta di lettori e visualizzazioni.
Data Media Hub, in collaborazione con Talkwalker, ha deciso di capire se, nel frattempo, qualcosa in questo strano rapporto fosse cambiato. Per un intero mese, dal 27 settembre al 26 ottobre, ha analizzato come sono state utilizzate le pagine delle più importanti testate editoriali del nostro Paese, prendendo in esame venti realtà suddivise perfettamente tra quelle all digital (Fanpage, TGCom24, Today, HuffPost Italia, The Post Internazionale, Il Post, Blogo, Agi, Ansa, e Linkiesta) e quelle “tradizionali” (Repubblica, Corriere della Sera, La Stampa, Il Sole24Ore, Il Fatto Quotidiano, La Gazzetta dello Sport, Libero, Il Giornale, Il Manifesto, e Avvenire).
Una quantità industriale di link (e altri numeri)
La prima cosa da notare è che i newsbrand italiani pubblicano una quantità impressionante di contenuti. Tanto che, in molti casi, si assiste a quello che nell’ambiente viene identificato come “cimitero” o “discarica” di link. Ovvero la tendenza a postare un numero molto elevato di post esterni, quasi tutti provenienti dal sito della testata, dimenticando come Facebook apprezzi la creazione di materiale nativo (fatto ad hoc) e vario (video, foto, Gif animate, aggiornamenti di stato, etc etc). Questa mole enorme di articoli, che raggiunge una porzione molto limitata dei fan, ha come unico obiettivo quello di generare traffico senza di fatto prendersi cura della propria community e senza istituire alcun dialogo con i propri lettori/seguaci.
Tra le realtà prese in esame è Il Giornale a guardare tutti dall’alto con 170 post al giorno (più di 7 all’ora), seguito da Fanpage con 109 e il Fatto Quotidiano con 90. Il Manifesto è il quotidiano che in assoluto posta il minor numero di contenuti (poco meno di 4). Il quotidiano con il maggior tasso di engagement è Repubblica con un engagement rate giornaliero del 3.7%. All’estremo opposto Blogo, fermo allo 0.1%. I link sono in assoluto il tipo di contenuto più postato sulle pagine dei quotidiani, con un peso sempre superiore al 90% del totale: unica eccezione è Fanpage che invece ha una quota significativa di immagini e citazioni. Risulta quindi assai marginale l’incidenza di video e post di solo testo.
Ehilà, c’è nessuno?
Seppur alcuni social media manager hanno deciso di attuare una moderazione silenziosa, resta impressionante la quantità minima delle risposte date dai giornali ai propri lettori su Facebook.
La Stampa, che è la testata con il maggior numero di interazioni, raggiunge 55 risposte in un mese a fronte di 234.870 commenti da parte delle persone. Repubblica si ferma a 3 risposte pur avendo ben 485.746 commenti e ci sono altre realtà che non hanno mai risposto ai commenti ricevuti come Ansa, Libero e Linkiesta. Dati che fanno specie soprattutto se si guarda alla vastità di queste community. La pagina Facebook con la maggior fanbase è quella di Fanpage con poco meno di otto milioni di fan. Seguono Repubblica, con 3.7 milioni di fan, e Today appena sopra i tre milioni. La pagina con il minor numero di fan è quella di Avvenire appesa sopra i 146mila. E vista la scarsa interazione non è un caso, come si legge sul report, che il tasso di crescita sia in netto calo: escludendo Agi, che in un mese vede una crescita della fanbase del 7.5%, e il Sole24Ore, che cresce del 5%, per tutte le altre testate analizzate i tassi di crescita del numero di fan si attesta tra il 2 e l’1 percento.
Un sentiment negativo (e pieno di insulti)
L’assenza di dialogo e di moderazione, nonché di una chiara social media policy, fa sì che le emozioni e le reazioni di chi commenta siano prevalentemente esternazioni di dissenso e rabbia. Tra i termini più ricorrenti ci sono, ad esempio, “fake news” e “schifo”, insieme a una lunga schiera di insulti e vocaboli scurrili che qui evitiamo di riproporre (ma potte scorgerli all’interno della nuvola). Tra le emoji, invece, domina “la faccina che piange dal ridere” presente nel 3,6% del totale delle risposte della community.
Il giudizio finale del report non lascia adito a dubbi: “risulta evidente come non vi sia una gestione adeguata del social network più popoloso del pianeta da parte delle fonti d’informazione esaminate. Una costante nel tempo emergente da altre ricerche in passato, che diviene “colpa grave” ormai all’approssimarsi della fine del 2018”. Insomma se vogliamo rendere Facebook, dal punto di vista giornalistico, un posto migliore è necessario prenderci maggiormente cura degli spazi che noi stessi abbiamo creato. Come? Puntando sulla qualità e non sulla quantità, ascoltando di più e pubblicando di meno.