Un mese fa ho ricevuto un invito particolare: quello di andare a Firenze alla Stazione Leopolda dove l'ex premier Matteo Renzi da otto anni, organizza degli eventi politici che hanno come obiettivo quello di elaborare e proporre idee nuove. L'invito non è arrivato inatteso. Da anni mi occupo di fake news, e con l'avvicinarsi dell'inizio della campagna elettorale, era inevitabile che anche in Italia si cominciasse a parlare in termini concreti di questo problema.
Per di più in queste settimane, alcuni articoli pubblicati su giornali internazionali di grande spessore, come per esempio il New York Times, avevano messo in rilievo il tema delle fakenews proprio in vista dell'avvicinarsi delle elezioni in Italia. Del resto, dopo la Brexit, le elezioni presidenziali negli Usa e le elezioni francesi perché non dovrebbe succedere anche qui in Italia?
Cosa ho detto all'ex premier Renzi
Così prima di andare alla Leopolda per questa insolita lezione, ho pensato bene a cosa avrei dovuto spiegare all'ex primo ministro Matteo Renzi. Quello delle fake news, della "minsinformation" è infatti un tema quanto mai delicato. Internet ha favorito il moltiplicarsi delle fonti rendendo di fatto l’accesso alle informazione praticamente a costo zero.
Ognuno di noi produce e consuma attraverso i social contenuti secondo la legge della conferma di pregiudizio. L'illusione sta nel pensare che questo meccanismo sia prerogativa solo di un determinato gruppo di persone dalle caratteristiche particolari e ben riconoscibili. Riguarda tutti. Ciascuno di noi agisce seguendo questo tipo di meccanismo.
Ogni giorno, ogni secondo miliardi di terabytes di informazione si muovano attraverso le piattaforme social seguendo i canali della conferma dei propri pregiudizi. Un fiume inarrestabili di foto, testi, video, grafici, meme, che colpiscono in maniera selettiva ciascun utente nei sui pregiudizi più intimi.
Come riuscire ad orientarsi in questo maremagnum di informazioni? Pensare che le categorie del vero e del falso possano indurre persone a ripensare le proprie posizioni acquisite attraverso la lettura di contenuti costruiti e consumati proprio per confermare i propri pregiudizi soggettivi, è semplicemente ingenuo.
Nessun algoritmo (o fact-checking) può salvarci dalle bufale
Se poi si immagina che questo processo possa essere messo in crisi dalla partecipazione al dibattito di persone autorevoli, come per esempio illustri scienziati, uomini di cultura o di fede, allora rischia di essere deleterio, e di favorire ancora di più il consolidamento delle posizioni. Davanti a tutto ciò non esiste, né del resto può esistere, nessun algoritmo che sia in grado di aiutarci a fare chiarezza, a discriminare cioè le informazioni vere da quelle false.
Affermare, come fanno molti che sia possibile costruire strumenti di questo genere vuol dire semplicemente non avere conoscenza delle basi minime di informatica e di logica. Al massimo, se proprio vogliamo affidarci a questa soluzione, potremmo arrivare ad avere un algoritmo che sia in grado di valutare un contenuto per una serie di caratteristiche ben individuate, ma non perché le informazioni in esso contenute siano vere.
La verità non può essere letta da un algoritmo, e nemmeno, molto probabilmente, da un essere umano, data la natura complessa e spesso non sempre accessibile della realtà.
Per questa ragione, anche il cosiddetto fact-checking ha uno scarso impatto su chi ha diffuso e condiviso una notizia falsa. Non cambierà di certo opinione se un esperto bolla la sua fonte di informazione come tale. Non c’è fact-checking che tenga.
Al contrario, quello che osserviamo quando coi nostri modelli scomponiamo i flussi di informazione che si muovono nelle piattaforme social, è che esistono narrazioni che si incrociano su un piano di tessitura che tuttavia presenta diverse imperfezioni.
Saper leggere i dati è cosa complicata, saperli interpretare con la pretesa dell’assoluto è invece una vera e propria utopia. Difficile quindi trovare anche una soluzione normativa.
La comunità europea, per esempio, sembra pensare che ogni intenzione legislativa senza aver inquadrato in maniera sensata il problema sia pericolosa. Il problema delle fake news è infatti molto più ampio di quanto immaginiamo e investe in primo luogo il processo di formazione della conoscenza e i circuiti di distribuzione delle informazioni. Siamo di fronte a un vero e proprio cambio di paradigma. Le fake news sono la punta dell’icerberg di un problema molto più radicale.
Per contrastare questo fenomeno, per fare in modo cioè che queste notizie, anche quando sono palesemente e sfacciatamente false, trovino credito e diffusione attraverso la condivisione, bisogna ricostruire un circuito di autorevolezza basato sul dialogo reciproco e continuo.
Fino a qualche anno fa, ed è ancora così in qualche parte del mondo, noi umani credevamo che dietro al fulmine ci fosse una qualche manifestazione divina. Quella era per noi la verità. Ma la verità è inaccessibile a noi umani, sia che siamo giornalisti, scienziati, o politici. La verità appartiene a Dio. Nel corso dei secoli, noi uomini, proprio per imporre la nostra verità, abbiamo ucciso, torturato, umiliato milioni di persone.
Le tribù dei social
Ora ci dividiamo sui social in tribù a seconda delle diverse verità disponibili. Non ci uccidiamo, ma mortifichiamo il dibattito pubblico attraverso una continua delegittimazione dell’avversario che si difenderà alzando il livello dello scontro. Allora si creeranno due poli del tutto antagonisti tra loro, che si alimentano dallo scontro reciproco e che nello scontro, trovano la natura del loro esistere.
Ma è proprio quando la polarizzazione aumenta - e lo dimostriamo in un nostro nuovo lavoro sperimentale - che le opinioni diventano più sensibili alle fake-news che diventano ancora più virali di quanto non lo siano abitualmente. Ottenendo come paradosso, l’effetto opposto di quello che si voleva ottenere.