Mi diverte pensare che, prima o poi, ritroverò accanto a me, in aereo o in treno, un robot. Oggi siamo in molti a chiederci se il mondo sarà un paradiso terrestre dove gli uomini possono vivere felici con il reddito di cittadinanza, finanziato dal lavoro dei robot. O, all’inverso, come nella copertina di The New Yorker (vedi illustrazione), gli uomini saranno schiavi dei robot, senza lavoro e senza futuro. Per la verità le due visioni sono esagerate. Tutti parlano della crisi del lavoro. The Guardian, in questi ultimi giorni, ha riproposto statistiche sulle gravi perdite di posti di lavoro da qui al 2020. E’ un po’ che questo ritornello di voci allarmistiche m’infastidisce da un lato e dall’altro mi spinge ad immaginare le ripercussioni sociali di questa nuova alleanza fra Big Data, Intelligenza Artificiale e robotica.Già da due anni a Firenze con la mia rivista Media Duemila e l’associazione Intelligenza Artificiale organizzammo un incontro proprio sui lavori del domani con i liceali fiorentini.
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L’importante è concentrarsi sulle nuove competenze che lo creano. E l’Italia mi sembra un pò indietro su questo punto. Verso l’intelligenza artificiale ho sempre nutrito dubbi. Non sono un programmatore, anche se nel 1982, mi sono divertito a programmare in basic sul mio portatile (certamente non ancora un laptop!) le 200 righe della famosa Eliza di Joseph Weizenbaum. Psichiatra virtuale, programmata per dare risposte semplici, a domande semplici. Weizenbaum l’aveva creata per far capire agli entusiasti dell’intelligenza artificiale che questa elementare simulazione d’interlocuzione fra uomo e macchina non avrebbe mai raggiunto i livelli sottili dell’intelligenza biologica.
Su questo ovviamente non posso più essere d’accordo, ma confesso che ci sto ripensando.
La moda dei Tamagotchi sta ritornando nelle scuole francesi dopo 20 anni di oblio. Sono piccoli robot relazionali che chiedono affezione e cura, creati per fare richieste alla loro “mamma” durante la giornata, così come fanno i bambini. La nuova generazione di Tamagotchi è più performante. È capace d’imparare le emozioni. L’Affective computing è il ramo specifico dell'intelligenza artificiale che si propone di realizzare robot in grado di riconoscere ed esprimere emozioni.
Nel 1993 l’artista giapponese Naoko Tosa ha creato la sua istallazione Cry Baby, un bimbo in video, a cui i visitatori potevano parlare attraverso un microfono e che da questa interazione imparava a parlare. Creato secondo lo stesso principio d’intelligenza artificiale e di machine learning, del mio proprio figlio virtuale, Angel_F (https://en.wikipedia.org/wiki/Angel_F). Questo modesto robot impara dall’interazione con gli utenti.
Siri e Alexa sono molto più performanti.
La creazione di robot autonomi è la soglia di passaggio all’antropocene, momento quando l’umanità si riproduce tecnicamente. Per realizzare il suo destino la robotica deve diventare autonoma. L’arrivo del robot autonomo può essere paragonato a una sorta di mitosi. L’uomo si separa della sua estensione tecnica. Tutta la robotica comincia con l’indipendenza dalla mano, con l’Intelligenza artificiale si separa anche dalla mente.
Nella prima fase tengo stretto nella mia mano lo strumento che la estende, nella seconda lo strumento lascia la mia mano e organizza se stesso. Diviene indipendente, quindi un robot. L’indipendenza della mano non mi sembra pericolosa, ma quella della mente sì.