Inizia in questi giorni, almeno sul piano formale, una nuova stagione di promesse elettorali. Con ogni probabilità assisteremo alla consueta rincorsa tra chi cerca consenso con nuove e attraenti suggestioni e chi è portatore d’istanze ed interessi, vecchi e nuovi. La matassa di progetti, iniziative, nuovi diritti o nuove forme di sostegno imprenditoriale e d’inclusione sociale alla quale la prossima legislatura dovrà provare a dare seguito sarà, come al solito o forse più del solito, davvero difficile da sgarbugliare.
Tra i tanti temi che ci aspettiamo di vedere in prima fila, con buona probabilità, ci saranno l’innovazione tecnologica e il digitale. Sono temi alla moda, non irritano nessuno, sembrano moderni, ammiccano ai giovani, promettono un futuro di pace e modernità. E poi senza il supporto di social network e piattaforme digitali la campagna elettorale rischia di essere in salita, meglio far vedere che si è loro buoni amici.
In fondo poco importa, almeno nel tempo delle promesse, se ragionare di digitale significa anche ricordare i tanti, troppi, ritardi che il nostro Paese ha accumulato nei confronti delle economie più avanzate e di quelle che presto ci sopravanzeranno. Faremo finta di non sapere che lo sviluppo tecnologico offre modernità di assetto e di funzioni ma chiede un prezzo elevato in termini di disoccupazione, di esclusione sociale ed economica, di nuove diseguaglianze, di rischi per la riservatezza delle persone e la sicurezza delle transazioni.
Verrà poi, dopo le elezioni, il tempo di rallentare tutto, di ridurre la spinta in avanti che la tecnologia offre pur di non affrontare i nodi della transizione digitale. Lo abbiamo già visto e preoccupa il rischio di vederlo di nuovo.
Il 28 novembre 2012 nel confronto faccia a faccia in diretta tv tra i due candidati nelle primarie per la guida del centrosinistra, Pierluigi Bersani e Matteo Renzi, il futuro premier rispondendo alla domanda conclusiva sulle prime tre cose da fare una volta al Governo, ha promesso un piano per l'innovazione e il digitale per dare al nostro Paese respiro competitivo e nuova occupazione.
Sono passati più di cinque anni e tre Governi ma del piano per l’innovazione e il digitale nemmeno l’ombra. Non potendo considerare come tale né il documento di Strategia per la crescita digitale del marzo 2015, privo di visione e di elementi di programmazione, né il piano triennale per la digitalizzazione delle pubbliche amministrazioni del maggio 2017, nato zoppo e immediatamente rinchiuso in qualche armadio.
Neanche nei 1.181 commi dell’articolo 1 della legge di bilancio per il 2018 troviamo traccia di un qualche concreto sforzo di visione di sistema per lo sviluppo di nuovi servizi e nuove soluzioni tecnologiche. Tuttalpiù qualche stravaganza digitale della quale non merita parlare.
Il ministro Carlo Calenda, con il piano Industria 4.0, ha provato a smuovere le acque e a favorire, con qualche buon risultato, nuovi investimenti in tecnologia e in miglioramento delle competenze digitali. Il meccanismo del credito d’imposta però funziona nel breve periodo, mette “una pezza” alla crisi di visione e di strumentazione attuativa della politica industriale, sopperisce alla difficoltà del sistema pubblico nel selezionare e sostenere programmi e settori industriali giudicati prioritari.
Per guardare al futuro serve molto di più. Serve una visione di sistema che indichi le opzioni su cui, amministrazioni e imprese, possono investire. Serve una riforma delle strutture che promuovono il coordinamento dello sviluppo tecnologico: il Commissario Francesco Caio per l’Agenda digitale, il Team digitale di Diego Piacentini e l’Agenzia per l’Italia digitale di Stefano Quintarelli sono tra le più forti delusioni di questi anni.
Servono un indirizzo politico chiaro e una scelta di campo sul ruolo del pubblico nella produzione e gestione delle risorse informatiche, troppe in-house locali e nazionali e troppo forte la loro volontà di espansione sul fronte dei servizi. Servono nuove regole e nuove strategie di affidamento dei contratti ICT per favorire le piccole e medie imprese. Serve in poche parole una rottura con il passato.
Tra le intenzioni di Matteo Renzi e la legge di bilancio per il 2018, per usare le parole della Commissione parlamentare d’inchiesta sul livello di digitalizzazione e d’innovazione delle pubbliche amministrazioni, solo un lungo elenco di progetti trascinati da una legislatura all’altra.
La carta d’identità elettronica, voluta da una legge del 1997, e regolata nel 1999 dal primo Governo D’Alema, è stata consegnata (dati del Ministero dell’Interno all’11 dicembre 2017) a 1.247.924 persone su oltre 60 milioni di residenti. La disponibilità in tempo reale dei dati di generalità, cittadinanza e indirizzo anagrafico delle persone residenti in Italia e dei cittadini italiani residenti all'estero è prevista da una legge del 2001 ma a dicembre 2017 (sempre dati del Ministero dell’Interno) i Comuni che hanno completato il subentro nell’Anagrafe nazionale della popolazione residente sono 27 su 7.978.
La piattaforma di regole e di tecnologia per gli incassi e i pagamenti digitali delle pubbliche amministrazioni è la stessa del 2011, come quella per la fatturazione elettronica. Dal 2019 l’obbligo di fatturazione elettronica sarà esteso anche alle fatture tra soggetti privati e non poche sono le preoccupazioni circa la sua effettiva attuazione e circa la protezione dei dati.
Il progetto Italia Login che avrebbe dovuto cambiare le modalità di accesso e di fruizione ai servizi on-line delle amministrazioni pubbliche si è perso per strada nonostante i 350 milioni di euro assicurati.
La progettazione di un’infrastruttura nazionale d’interoperabilità del fascicolo sanitario elettronico, necessaria a collegare le diverse infrastrutture regionali, è prevista da una legge del 2012 ma solo nell’ottobre del 2017 è stato pubblicato un primo provvisorio documento che ne indica gli obiettivi, in modo peraltro piuttosto confuso. La gara per i servizi di connettività delle pubbliche amministrazioni, valore 2.4 miliardi di euro, ha richiesto proroghe con i vecchi fornitori per oltre 8 anni.
In compenso abbiamo moltiplicato i siti delle pubbliche amministrazioni e le banche dati pubbliche, rinviato ogni censimento delle infrastrutture critiche e dei sistemi per la loro protezione, abbandonato ogni speranza di tutela e regolazione della privacy. Tralasciato progetti pur importanti: dalle regole per la georeferenziazione ai dati territoriali; dalle piattaforme condivise per i libri di testo digitali a quella per gli open data; dalle infrastrutture in cloud per la continuità operativa dei servizi pubblici a quelle per la partecipazione democratica alle decisioni di interesse collettivo.
Forse non è ancora tempo di bilanci per la legislatura che si è appena chiusa o di giudizi per una campagna elettorale che ancora non è partita ma certo quel tempo ci sta di fronte e sarà bene tenere occhi aperti e menti sgombre.