In un Paese nel quale ogni cosa è il contrario di tutto, nel quale creazione e illusione sono la stessa parola e fondamenti portanti della religione, nel quale la stessa religione serve anche per giustificare semplici usi di vita quotidiana, può capitare che chi si senta discriminato e pertanto protetto dalla legge, protesti perché la legge colpisca indiscriminatamente gli altri anche senza prove.
I fatti. Lo scorso 20 marzo la Suprema Corte indiana emette una sentenza con la quale annuncia una revisione in senso meno restrittivo dello Scheduled Castes (SC) e Scheduled Tribes (ST) Prevention of Atrocities Act (1989), una legge programmata per proteggere le comunità, considerate emarginate, dagli abusi e dalle discriminazioni.
Questa legge, rivista in senso restrittivo nel 2015, prevede, tra l’altro, che chiunque, compresi funzionari pubblici e poliziotti, si macchino di un crimine qualsiasi contro un appartenente di gruppi che rientrano nelle Scheduled Castes o Scheduled Tribes (fuori dal sistema castale tradizionale di quattro, spesso emarginati dalla società), venga arrestato. Il nuovo indirizzo della suprema corte, prevede che l’arresto dei funzionari e poliziotti possa avvenire solo in seguito a gravi fatti, non a semplice denuncia.
La cosa ha scatenato le ire delle comunità dei fuoricasta, dalit, indiani, che sono sfociate in manifestazioni molto violente, che hanno portato fino a ora alla morte di nove persone, soprattutto negli stati di Delhi, Madhya Pradesh (dove ci sono stati sei morti), Uttar Pradesh (due vittime), Rajasthan (un morto), Punjab and Bihar. Il governo ha annunciato subito una richiesta alla suprema corte di rivedere la sentenza ma la questione è diventata da sociale a politica, con il partito del Congresso dei Gandhi-Nehru che ha accusato il governo dei nazionalisti del BJP di fomentare la rivolta e di discriminare i fuoricasta.
Tutto vero. O quasi. Perché il problema è molto più profondo di quanto si possa credere e risiede nella storia stessa del Paese. Cerchiamo di guardare le cose da un altro punto di vista, togliendoci di dosso stereotipi e preconcetti propri della nostra tradizione occidentale.
L’India, si sa, è sempre stato un Paese, ma più un continente, agricolo, nel quale le leggi della terra hanno regolato la vita quotidiana e continuano a farlo. Con l’arrivo degli Arii nel subcontinente e il successivo affermarsi della religione vedica, il sistema di divisione sociale in vigore nel Paese (i funzionari civili che sapevano leggere e scrivere, i militari, i commercianti, i contadini e i servitori, quelli impegnati in lavori umili e pericolosi come avere a che fare con i morti o occupati nelle pulizie) assume un valore assoluto.
La religione, infatti, teorizza che i bramini (o brahmani, coloro che sapendo leggere e scrivere potevano illustrare le sacre scritture) nascano dalla bocca del dio; gli ksatrya (i soldati) dalle sue braccia; i vaisya (commercianti) dal ventre e dalle gambe; i sudra (servitori) dai piedi. Al di fuori, quelli che non appartenevano a queste classi. All’interno di questa distinzione, nacquero altre sotto-distinzioni, delle sottocaste, a seconda della comunità etnica ma, soprattutto, della famiglia, dei lavori che facevano. Il tutto in un sistema molto chiuso, nel quale ci si sposava all’interno non solo della stessa casta, ma della sottocasta, per cui l’appartenenza castale non riguarda il lavoro ma la famiglia a cui si appartiene.
Questo ha ovviamente portato a storture: in un Paese nel quale le enormi temperature e la pochezza sanitaria favorivano la diffusione delle malattie, coloro che si occupavano di lavori come la macellazione, la cremazione dei corpi, la pulizia di fogne o simili, si ammalavano più facilmente e quindi erano emarginati perché non diffondessero epidemie e di conseguenza non dovevano essere toccati (da qui intoccabili).
I sacerdoti, inoltre, che per definizione dovevano essere puri, non potevano contaminarsi con coloro che ad esempio pulivano le fosse settiche: da qui a evitare la loro ombra o farli scendere dall’autobus se salivano il passo è stato breve. (Sul valore religioso nella vita sociale dell’India basti pensare al concetto di mucca sacra: in un paese agricolo, caldissimo come il subcontinente, senza strumenti di conservazione refrigerata, uccidere una mucca che è strumento di lavoro nei campi significa perdere tutto, anche perché, a causa del caldo, non si può conservare a lungo la carne da consumare).
Queste esagerate e ingiustificabili storture hanno portato ad una vera e propria discriminazione nei confronti dei fuoricasta, dalit, che oggi sono 200 milioni degli 1,3 miliardi di abitanti del paese. Uno dei padri della patria indiana, Bhimrao Ramji Ambedkar, padre soprattutto della costituzione indiana perché fu presidente del comitato di redazione della Costituzione approvata nel 1949, era un dalit e fece inserire nella carta numerosi richiami alla uguaglianza, all’abolizione del sistema castale.
Ma nell’India delle contraddizioni, se la costituzione vieta le caste, la legge le permette: non sono poche, infatti le leggi che favoriscono i fuoricasta rispetto agli appartenenti delle altre con riserve nei lavori negli uffici pubblici, nei concorsi, nell’accesso alle università. Il punto è che, come detto, l’appartenenza castale deriva solo dalla familiarità (non a caso c’è stata una certa corsa a registrare i figli come fuoricasta, l’appartenenza si deriva dal cognome), non c’entra lo stato sociale o questione economica.
Per cui si è arrivati al paradosso che “ricchi” dalit senza concorso sono entrati nelle università o nei ministeri a scapito di bramini poveri o con più meriti scolastici. Negli anni ottanta ciò ha portato a manifestazioni di piazza degli appartenente alle caste tradizionali (durante le quali si sono anche immolati alcuni di loro) contro la discriminazione a favore di coloro che ufficialmente discriminavano. Anche nella politica è così. Nello stato più numeroso, l’Uttar Pradesh, i dalit costituiscono circa il 22% della popolazione; 17 degli 80 seggi Lok Sabha (il parlamento locale) sono riservati per loro.
La legge emendata lo scorso 20 marzo e che ha scatenato le ultime proteste, intende bilanciare questo scompenso. In base a come era stata formulata, bastava una denuncia, anche senza prove, nei confronti di agenti di polizia o di funzionari da parte di dalit e i primi venivano arrestati. Molte delle accuse sono risultate false: nella sentenza di martedì, la corte ha osservato che secondo il ministero dell’interno , nel 2016 tra i casi registrati per crimini contro persone delle Scheduled Castes, 5.347 casi erano risultati falsi e 912 dei casi di denunce da parte di Scheduled Tribes erano risultati falsi. La corte ha sottolineato la necessità di fornire salvaguardie in vista dell'abuso osservato negli ultimi tre decenni. Ad esempio, nel 2016, solo l'1,4% di tutti i reati contro le caste programmate che sono venuti in giudizio si è concluso in condanne.
L’aumento dei casi di denunce false potrebbe però essere spiegato con la percezione, da parte dei dalit che lo stato e la giustizia faccia poco per loro. Sia ben chiaro: in India la discriminazione esiste ed è forte, soprattutto nei confronti dei fuoricasta. Ma discriminazioni avvengono per molti anche all’interno del sistema castale o per gli appartenenti alle altre fedi come cristiani, sikh e musulmani. Le atrocità contro i dalit non sono eventi isolati. La discriminazione basata sulla casta è radicata nella società indiana.
Un sondaggio condotto nel 2016 in Rajasthan, Delhi, Uttar Pradesh e Mumbai mostra che una percentuale sconcertante di persone non dalit (o delle loro famiglie) ha ammesso di praticare l'intoccabilità, che è esplicitamente vietata dalla legge, con punte del 66% nelle zone rurali del Rajasthan. Che la condizione socio-economica dei dalit sia migliorata nel tempo è vera. Ma questo progresso ha anche creato aspirazioni e quindi insicurezze. Le statistiche di un sondaggio CSDS-Lokniti del 2016 tra i 15 ei 34 anni mostrano che la sensazione di essere discriminati sulla base della casta era maggiore tra i dalit laureati che nella comunità nel suo complesso. Risultati che, semmai ce ne fosse bisogno, dimostrano come non solo il problema sia molto più radicato, ma che è in sé una grande contraddizione tra la vita reale e quella percepita, una costante in questo crogiolo di vita che si chiama India.