C’è stato un momento della mia vita in cui per me il giornalismo era Vittorio Zucconi. Lavoravo già a Repubblica, cronista delle ultime file, e la mattina correvo a sfogliare il giornale in cerca del suo articolo. Era sempre in prima pagina e aveva degli attacchi sfavillanti, di qualunque cosa scrivesse sembrava che ti stesse portando nel paese delle meraviglie.
Con il tempo mi resi conto che certi dettagli, certe frasi che lui attribuiva a questo o quello, erano troppo belle per essere vere, e se anche fossero state vere lui non poteva davvero saperlo. Non era lì mentre il presidente degli Stati Uniti incontrava quello dell’Unione Sovietica. Questo per dire che i suoi bellissimi articoli non erano sempre esatti, spesso cedevano il passo al romanzo, ma coglievano la sostanza delle cose come pochi altri erano capaci di fare.
Lo conobbi finalmente nel 1999, io avevo 34 anni e stavo girando il mondo per studiare questa nuova tecnologia chiamata Internet. Tra la Silicon Valley e Tokyo mi fermai a Auckland in Nuova Zelanda. Non per caso. C’era la Coppa America di Luna Rossa, una impresa epica e naturalmente lui era lì. Di quei tre giorni trascorsi assieme ricordo la sua travolgente umanità, la sua allegria contagiosa, la sua febbrile curiosità. In un giorno senza regate affittammo una macchina per andare a scoprire la spiaggia dove avevano girato un film magnifico, Lezioni di Piano.
Credo che fu allora che gli dissi che avevo letto anche tutti i suoi libri, e in particolare ne avevo amato uno sul giornalismo. E gli citai la frase che lui attribuiva a un anziano giornalista americano, chissà se l’aveva davvero mai pronunciata. Era questa, più o meno: Alla fine dissero che aveva dato la sua vita per il giornalismo, non capendo che era il giornalismo che gli aveva dato la vita. Ciao Vittorio, grazie, è stato bello ascoltarti.