(sulla questione dello smartphone in classe abbiamo pubblicato diversi interventi. Ho aperto il dibattito con questo post in cui esprimevo una contrarietà ragionata all'apertura del MIUR; poi è intervenuto il docente Mimmo Aprile, invece favorevole perché lo smartphione a lezione lo usa da anni; il tecnologo Matteo Boero, che si occupa di strumenti digitali per la didattica, anch'egli contrario sulla base di anni di esperienza; la studentessa Valeria Cagnina, blogger e maker di fama, che ha spiegato il punto di vista dei giovani; e ora ospitiamo le riflessioni di un'altra insegnante favorevole, Paola Lisimberti, in prima linea nell'attuazione del Piano Nazionale Scuola Digitale del MIUR).
Se scrivo un pezzo sulla diatriba più gettonata del momento, mi cerco il luogo ideale per farlo: il bar. Caffè e cellulare sono tutto quello che mi serve: sono pronta.
Procediamo con ordine. La Direttiva Ministeriale del 15 marzo 2007 risulta ormai inadeguata: Linee di indirizzo ed indicazioni in materia di utilizzo di “telefoni cellulari” e di altri dispositivi elettronici durante l’attività didattica, irrogazione di sanzioni disciplinari, dovere di vigilanza e di corresponsabilità dei genitori e dei docenti. Un bel parlare antico: sembra che questo testo sia vecchio di 30 anni. E’ necessario fornire precise indicazioni sulla gestione e sul ruolo della tecnologia che l’alunno porta a scuola ogni giorno. Il nuovo testo dovrà contenere elementi di flessibilità (che gli consentano di “restare giovane”); dovrà tenere conto di uno scenario che cambia velocemente (gli alunni ormai non telefonano più e hanno sostituito i messaggi scritti con i messaggi vocali); dovrà esprimere indicazioni distinte per i diversi cicli di istruzione.
E così, il “virtuale che intossica, la tecnologia che sradica” saranno ammessi a scuola con il benestare del legislatore: scende in profondità Stefano Moriggi nel saggio “Connessi. Beati quelli che sapranno pensare con le macchine”. Se l’invasione degli ultracorpi a scuola sarà compiuta, andiamo a rileggere Platone. La prima volta che uno smartphone ha avuto diritto di parola durante una mia lezione è stato tanti anni fa: uno studente all’ultimo banco propose di ascoltare “La pioggia nel pineto” letta da D’Annunzio, che aveva trovato in rete il pomeriggio precedente. Ci prendemmo gusto: finalmente di alcuni autori potevamo ascoltare la voce, sorridere dell’intonazione e dell’accento oltre a vedere i ritratti sul libro. Io non avevo lo smartphone, possedevo ancora un semplice cellulare, mentre quello studente non solo aveva l’ultimo modello, ma anche la connessione personale alla rete.
Non immaginavamo ancora che accedere alla rete sarebbe diventato uno dei diritti più importanti per il cittadino. Dalla connettività può dipendere l’invio tempestivo di un progetto, la prenotazione di una prestazione sanitaria, l’iscrizione al test universitario. Così, nel Piano Nazionale Scuola Digitale l’azione #3 mette a fuoco (anche con l’impegno economico) proprio il “diritto a Internet”. L’innovazione nella didattica è strettamente connessa alla connettività e la rete è una infrastruttura che deve essere garantita ad ogni scuola dallo Stato. Su questo fronte si procede a rilento, si sono fatti molti errori. Ricordate la storia del binario unico sulla dorsale adriatica? Le infrastrutture fanno crescere un paese e sono importanti, ma tutto questo non si concilia con il nodo centrale di tutte le operazioni di lifting sulla scuola pubblica: le riforme a costo zero.
Attenzione, però: questo non significa che per insegnare sia necessario connettersi alla rete. Il cuore dell’insegnamento è e resta la relazione con gli studenti, che praticano la tecnologia e hanno imparato a coniugare verbi nuovi (sconosciuti alla mia generazione) come collaborare, condividere, digitare, amministrare. E l’alunno viene a scuola con il suo mondo, che oggi ha una forma rettangolare, si illumina, suona. Ma la scuola è scuola: perché non utilizzare i dispositivi personali degli alunni nell’apprendimento? Anche questo è già scritto nel PNSD: Azione #6, politiche attive per il BYOD (Bring your own device). Considero molto valido l’uso di un dispositivo personale: il lavoro svolto in classe resta disponibile anche a casa, lo studente impara a conoscere e usare correttamente il proprio tablet o smartphone, magari impara anche ad averne cura. C’è la famiglia, direte voi: la famiglia ha assolto ai suoi doveri acquistandolo, le mamme e i papà ne sanno poco di quelle diavolerie, pronti a compiacersi di avere uno “smanettone” sul divano. E poi sarebbero cattivi maestri: questa nuova alfabetizzazione tocca a noi docenti e dobbiamo coinvolgere anche le famiglie.
Con un finanziamento FESR abbiamo acquistato, nella mia scuola, un dispositivo che facilita una didattica digitale, collaborativa e funziona da hotspot, aprendo la partecipazione anche ai dispositivi personali degli alunni. Sento già i cori nel corridoio: si crea disparità, non tutti possono permettersi uno smartphone ultimo modello. Certamente: io infatti, come genitore, non ho mai acquistato quaderni con copertine cartonate che ritraevano la principessa disneyana di un film che sarebbe uscito sei mesi dopo. E delle scarpe ne vogliamo parlare? E delle felpe? La vera disparità sarà nel non aver insegnato a tutti gli studenti, superando le differenze sociali e tenendo conto dei diversi stili di apprendimento, a muoversi in un mondo che ha ritmi nuovi e a portarsi nel virtuale la stessa educazione che sono tenuti a dimostrare nel reale. E qualcuno deve insegnarglielo. A tutela e per prevenire ogni possibile discriminazione, l’azione #22 del PNSD richiama l’attenzione sugli Standard minimi e interoperabilità degli ambienti on line per la didattica e parla di contesto di condivisione e di crescita collaborativa delle competenze di tutti.
Mi sembra che non sia il caso di attendere ancora o, peggio, di fermarsi (quanto siamo lontani dall’etica del “chi si ferma è perduto”): è tempo di occuparsi di competenze e di competenze digitali, lo dice l’azione #14 del PNSD e il DigComp (A framework for developing and understanding digital competence in Europe). M Come immaginiamo di far maturare nei ragazzi competenze come Navigare, ricercare e filtrare dati, informazioni e contenuti digitali (1.1) oppure Impegnarsi nella cittadinanza con le tecnologie digitali (2.3)? Imparando l’elenco a memoria? Un dettato? Imparare a proteggere i dati personali e la privacy (4.2) non è forse importante?
E’ il momento di essere operativi, in maniera diversa per ogni ciclo di istruzione. Io, nella scuola superiore, farei così. In ogni scuola c’è un Animatore Digitale (#28). Tra le altre (innumerevoli) cose, ha il compito di individuare soluzioni metodologiche e tecnologiche sostenibili da diffondere all’interno degli ambienti della scuola. Si comincia con una mappatura delle tecnologie personali degli studenti e una disamina della situazione della rete. Si individuano gli ambienti adeguati a garantire una didattica BYOD, si organizza una formazione interna all’istituto dei docenti che intendono sperimentare questa innovazione. Senza imporre. Una nuova direttiva non significa che siamo obbligati ad andare tutti in giro armati e farci i selfie nei corridoi.
I caffè sono diventati tre, il pezzo è finito. Alzo gli occhi: una mamma con il suo piccolo nel passeggino, avrà tre anni ed è vivace. Gli affida lo smartphone, il piccolo lo regge con tutte e due le mani, si incanta davanti allo schermo: lei fa colazione. Non lo avevo mai visto in versione tata e penso che tra qualche anno quel bambino potrebbe essere mio alunno. Un brivido, lo confesso.