La prima cosa che abbiamo fatto è stata chiedere scusa. Eravamo arrivati da qualche giorno alla direzione di AGI, con Marco Pratellesi, nell’ottobre 2016, e l’agenzia fece un errore clamoroso (e io diedi un notevole contributo, diciamo così). Qualcuno mi disse “fai finta di nulla”, qualcun altro “domani se lo sono già dimenticato tutti”. E invece il giorno dopo scrissi un lungo post in cui spiegavo per filo e per segno cosa era accaduto, come e perché avevamo sbagliato, e chiedevo scusa.
Era l’inizio di una prassi che da allora abbiamo seguito sempre: tutte le volte che abbiamo commesso un errore, e facendo oltre mille lanci di agenzia al giorno, trentamila al mese, trecentomila l’anno, gli errori capitano. È inevitabile. Ma se fai il giornalista, se pretendi di essere ritenuto credibile quale cercatore di verità, quando invece della verità per errore hai diffuso una balla, hai una sola cosa da fare: scusarti. E non fare finta di nulla ma lasciare traccia del tuo errore. È quello che facciamo ogni volta su agi.it: quando correggiamo un post, in cima trovate indicato il giorno e l’ora della correzione e il motivo per cui siamo intervenuti.
Sono passati due anni e mezzo e di buone pratiche da allora crediamo di averne introdotte parecchie: la più eclatante è il fact-checking, il controllo sistematico di quello che i politici affermano. Grazie al team di Pagella Politica, ogni giorno la dichiarazione più importante viene sviscerata e analizzata, incrociando le fonti, e alla fine diventa l’occasione non solo e non tanto per smentire il politico di turno, ma per spiegare per bene una questione complessa (le questioni sono sempre più complesse e articolate degli slogan a cui inevitabilmente le riducono i politici).
Un’altra cosa introdotta nei giorni scorsi va nella stessa direzione, di trasparenza verso chi legge e quindi di recupero della credibilità (in buona parte) perduta del giornalismo: mi riferisco alla questione del native advertising, come si dice adesso, o del branded content, insomma degli articoli sponsorizzati. Si tratta come è noto del tentativo degli editori di recuperare i ricavi che il digitale ha portato via. Si può fare, il native advertising, ma il lettore deve sapere subito cosa sta leggendo: non l’articolo di un giornalista ma un post concordato con un’azienda. Sponsorizzato. E in nessun momento deve avere il dubbio che non sia così: le font e il format del testo infatti devono essere diversi dal resto del sito. Crediamo di esserci riusciti.
Oggi, in occasione dell’apertura degli Stati Generali dell’Editoria, facciamo un altro piccolo passo. Agi è una società per azioni controllata al 100 per cento dall’Eni. È così dal 1965: nel mondo dei giornali e della pubblica amministrazione, ovvero dei clienti del notiziario, lo sanno tutti. Ma adesso Agi ha anche un sito di discreto successo: questo mese più di cinque milioni di persone avranno letto almeno un post, seguendo un link sui social, o sugli aggregatori o anche solo per caso. Loro, voi, non siete tenuti a sapere che Agi spa è controllata al 100 per cento da Eni. Ma noi siamo tenuti a dirvelo ogni volta che in un articolo parliamo di Eni.
Non è una rivoluzione: è la normalità nel giornalismo anglosassone (così come le scuse e il factchecking): se il Washington Post parla di Jeff Bezos ricorda al lettori che sta parlando del suo editore, e lo stesso fa il Time con Mark Benioff. Si fa così. Quando tenti, con fatica, di fare il giornalismo migliore, quando speri di essere considerato credibile da chi ti legge, si fa così e basta. E da oggi lo faremo anche noi. Sempre.
Non ci sentiamo più bravi di altri facendolo. Non corriamo il rischio della sindrome dei primi della classe. Anzi. Questa cosa andava fatta molto tempo fa, ma come dice un noto proverbio africano, se non l’abbiamo fatto prima il momento migliore è adesso.