Sono passati poco più di due anni dalle stragi del Bataclan e dei caffè del 10/mo arrondissement a Parigi e 20 mesi dalle bombe di Bruxelles: da quando tutto il mondo ha sentito parlare di un quartiere della capitale europea, Molenbeek, a due passi dal centro ma con tutte le caratteristiche sociali della periferia di una metropoli, in cui sono nati e cresciuti i terroristi che hanno colpito il cuore dell’Europa. Sono anche passati quasi tre anni da quando, pochi giorni dopo le sparatorie nella redazione di Charlie Hebdo e all’Hyper Cacher della capitale francese, la polizia belga scoprì a Verviers, nella zona di Liegi, una cellula jihadista che stava preparando proprio per quei giorni di gennaio 2015 nuovi attentati in Belgio, e in particolare proprio contro la polizia di Molenbeek.
Dei due giovani terroristi uccisi nel corso della sparatoria, Khalid Ban Larbi, 23 anni, era un cosiddetto “foreign fighter”, appena tornato dal suo addestramento in Siria. Da bambino aveva frequentato a Molenbeek la scuola elementare fiamminga Windekind, in cui il 90% degli allievi proviene da famiglie musulmane che puntano sull’istruzione di qualità in olandese per aprire ai loro figli più possibilità per il loro futuro in Belgio. Altri però la frequentano solo perché si trova vicino a casa, in quella parte del comune bruxellese oltre la ferrovia, prevalentemente composta di palazzoni di edilizia popolare e particolarmente degradata.
“Spesso per questi bambini, che arrivano qui a 2 anni e mezzo, l’olandese è una terza lingua, dopo l’arabo e quel po’ di francese che si parla a casa – spiega la dirigente di questa scuola “di frontiera”, Ingrid Depraetere – Facciamo di tutto per formarli al meglio: spesso funziona, ma quando escono dalle elementari e dal nostro radar a volte prendono strade diverse”. Come è successo a Khalid. Nel suo come in altri casi, la conoscenza delle lingue e della cultura locale è del tutto marginale rispetto all’arabo e della religione musulmana che prevalgono a casa, in moschea e fra le persone che si frequentano, senza mai aprirsi all’esterno.
Il comune di Molenbeek è il secondo più povero di Bruxelles e di tutto il Belgio con un reddito pro-capite di poco superiore ai 10mila euro all’anno, (solo a Saint Josse, un altro dei 19 comuni che formano Bruxelles, e che si trova a due passi dalle istituzioni europee, la situazione è peggiore). Le autorità comunali affrontano le difficoltà delle famiglie con iniziative sociali e di inserimento dei cittadini più sfavoriti, ma la sfida è difficile, e i fondi a disposizione pochi, come racconta all’Agi l’assessora italiana all’ambiente e alle questioni fiamminghe Annalisa Gadaleta.
“La povertà a Molenbeek non è solo materiale – spiega – ma anche culturale e intellettuale. L’aspetto culturale può addirittura essere quello più determinante: non mi risulta che i militanti islamisti partiti a combattere in Siria da qui provengano necessariamente da famiglie povere, ma piuttosto da situazioni di disagio sociale e culturale”. Cresciuta a Bari nel malfamato quartiere di San Paolo, considera che la situazione dei casermoni popolari “oltre la ferrovia” nella sua nuova terra di adozione non sia tanto diversa. “Anche questo era un quartiere industriale, abitato dagli operai che sono rimasti senza lavoro quando le industrie hanno chiuso, come in tante altre città europee”. Si tratta inoltre, storicamente, di una zona della capitale di “primo arrivo”: “Subito dopo la guerra e fino agli anni ’60, gli immigrati erano soprattutto italiani che venivano per lavorare in miniera. I marocchini sono cominciati ad arrivare dopo, dagli anni ’70. Poi dagli anni ’90, soprattutto europei dell’Est e africani. L’ultima ondata è romena. Ogni anno c’è un ricambio di popolazione di circa il 10% e questo provoca spesso tensioni sociali e risse”, come quelle avvenute recentemente anche in altre zone della città, fra marocchini e rom.
Dopo gli attentati di Parigi, quando i giornalisti e le telecamere di tutto il mondo sono sbarcate nella piazza principale di Molenbeek, vivace e circondata di begli edifici in stile “bruxellese”, ha suscitato stupore il fatto che “la culla europea del terrorismo islamico” non fosse una “banlieue” ma che anzi si trovasse a poca distanza pedonale dalla Grand Place di Bruxelles. Oltre che il secondo comune più povero di tutto il Belgio, è anche il secondo più giovane, con poco meno di un terzo di abitanti sotto i 18 anni (il 29%); fra il 2000 e il 2016 la sua popolazione è aumentata da 71mila a 95.600 abitanti. La pressione è demografica e sociale: la disoccupazione è al 30% e fra i giovani al 40%.
Un dato di pochi anni fa indicava che il 40% dei bambini di Molenbeek vivevano in una famiglia senza alcun reddito da lavoro. Il 38,5% degli abitanti che si dichiara di fede musulmana, secondo una ricerca dell’Università Libera di Bruxelles, rappresenta la quota più alta di tutto il Belgio. E anche se all’interno di questo gruppo c’è una grande varietà di comportamenti, e una fetta consistente di non praticanti, il comune ha comunque 26 moschee, di cui solo 5 riconosciute (e finanziate) dallo Stato, oltre a diverse scuole coraniche.
“A rendere la situazione pericolosa, e a spiegare le radicalizzazioni e la deriva terrorista di alcuni giovani del comune è la combinazione fra religione e disagio sociale”, insiste Gadaleta, ricordando che le prime partenze per la Siria risalgono a subito dopo l’inizio della guerra contro Assad, fra il 2011 e il 2012, e che già nel 2001 il comandante Massoud era stato ucciso in Afghanistan da due finti giornalisti tunisini, che avevano organizzato l’attentato proprio a Molenbeek.
Per il suo impegno a Molenbeek, ad Annalisa Gadaleta sarà conferito il mese prossimo dall’Ambasciata a Bruxelles il titolo di “Cavaliere della Stella d’Italia”. Che cosa sta cambiando a Molenbeek? “Ci sono tante iniziative dal basso, con tante persone, soprattutto donne, che lavorano per migliorare le cose – spiega – È stato aperto un nuovo museo dedicato alla “Street art”, il Mima, al posto di un’antica fabbrica di birra sul canale, che ha lasciato spazio anche a un albergo gestito da una cooperativa pubblica per far lavorare le persone in difficoltà e a un orto botanico di 1.300 metri quadrati oltre che a un ristorante dove si cucinano i prodotti dell’orto. E abbiamo aperto anche una brasserie-galleria d’arte proprio sulla piazza, a poca distanza dalla casa dove sono cresciuti i fratelli Abdeslam”. Per migliorare la situazione, conclude, la chiave è “investire nella scuola e nei luoghi di aggregazione, educazione e cultura; e per la sicurezza, è essenziale che ci sia coerenza e intesa fra i diversi livelli di intervento, fra la polizia e la giustizia”.