Comunque vadano a finire le elezioni di maggio, l’Europa ha già vinto. Strattonata dai populismi diventati mainstream, e in certi casi fattisi governo, giustificazione à la carte di ogni tipo di nefandezza, capro espiatorio della ‘stanchezza morale’ dei nostri tempi, la Ue non è mai stata popolare come adesso.
Le crisi ci sono, e sono tutte in evidenza. Nazionalismi crescenti, ritorno delle piccole patrie, accuse reciproche di egoismi. Per non parlare della Brexit, ferita che resterà aperta a lungo (salvo trasformarsi in uno psicodramma farsesco). Ma come avrebbe detto Helmut Schmidt, ‘perché stupirsi? L’Europa vive di crisi’. Dalla ‘sedia vuota’ di De Gaulle ai tre ‘no’ all’integrazione europea sibilati da Margareth Thatcher alla Camera dei Comuni agli inizi degli anni ‘90, fino al celeberrimo idraulico polacco contro cui si infranse il sogno della Costituzione europea bocciata dai francesi e dagli olandesi, solo per citare qualche esempio, le divisioni sono sempre state il pane quotidiano dello scontro europeo. E la costruzione dell’Europa, cristallo fragilissimo, è sempre passata per fasi di fibrillazione acuta, se non di rottura.
Eppure conta
Ma c’è una grande novità. Dopo che per decenni il voto per l’Europarlamento è stato considerato un banco di prova minore, ignorato, perfino superfluo, le prossime elezioni europee si sono trasformate nelle elezioni più politiche (forse le prime vere elezioni politiche) della storia del continente.
I temi di campagna elettorale, al netto dei toni necessariamente incendiari della propaganda ad usum Delphini, sono tutti di respiro continentale e riguardano una certa idea di Europa. O il suo contrario. Migrazione, moneta, cessione o contenimento della sovranità, guerre commerciali, rapporti con gli Usa di Donald Trump o con la Russia di Vladimir Putin. E poi partecipazione, legittimità, clima. Sono tutte questioni che qualunque opinione si abbia in merito, hanno un orizzonte europeo. E soprattutto politico.
Cattolici democratici contro sovranisti e altre sfide
Così come tutta politica (e tutta europea) è la ridefinizione dei ruoli e del peso delle grandi famiglie partitiche del continente. L’eterna auto-analisi della socialdemocrazia, dissanguata dai consensi, che prova a rimettere insieme il discorso europeista con quello della difesa degli ultimi, i tormenti dei Popolari divisi tra le sirene di Orban che vuole spingere a destra il Ppe e le ‘resistenze’ della componente più europeista della tradizione del cattolicesimo democratico. Fino alla ricerca di identità dei Cinque Stelle che stanno cercando in giro per l’Europa alleati che abbiano una visione comune del futuro dell’Unione. E ancora l’’internazionale sovranista’ che negli auspici di Matteo Salvini punta a diventare una componente rilevante del prossimo Parlamento per cambiare rotta alla Ue. L’orizzonte delle forze politiche tradizionali e di quelle ‘nuove’ ha lasciato i confini nazionali ed è diventato europeo.
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Sono buone notizie per l’Europa, insomma. I toni esasperati al limite dello scontro diplomatico (vedi la crisi tra Italia e Francia) sono la dimostrazione che il vecchio Continente è diventato l’agone di una campagna elettorale vera, di uno scontro politico autentico. La lotta nel fango, che è nella natura stessa della politica, si disputa su una visione diversa dell’Europa che si è trasferita al centro del discorso pubblico.
Fra tre mesi gli elettori di 27 paesi eleggeranno lo stesso Parlamento. Litigando, come è naturale che sia, su temi che riguardano il futuro di mezzo miliardo di persone. E questo è un segno di vitalità, non di sconfitta. Qualunque cosa succederà il 27 di maggio, l'Europa ha già vinto.