UNICREDITGROUP E AUTORE DEL LIBRO "L'ECONOMIA DELLA CINA" (ED. CAROCCI)
ADV
ADV
UNICREDITGROUP E AUTORE DEL LIBRO "L'ECONOMIA DELLA CINA" (ED. CAROCCI)

UNICREDITGROUP E AUTORE DEL LIBRO
"L'ECONOMIA DELLA CINA" (ED. CAROCCI)

STEFANO CHIARLONE
UNICREDITGROUP E AUTORE DEL LIBRO "L'ECONOMIA DELLA CINA" (ED. CAROCCI)
ADV
di Alessandra Spalletta

D. Siamo in uno scenario inflazionistico. In particolare il mercato immobiliare riporta alla luce i rischi di un incremento eccessivo dei non performing loans e di una nuova bolla speculativa. Quanto sono fondati questi timori?

ADV

R. La situazione del mercato immobiliare in Cina è una delle caratteristiche più preoccupanti nella ripresa cinese, sia per lo stato dell'economia reale sia per quello dell'economia finanziaria. Infatti, è noto che le bolle immobiliari sono generalmente le più dolorose nei sistemi finanziari e per le loro ripercussioni sull'economia reale. La Cina è vulnerabile a una bolla speculativa nel settore immobiliare, soprattutto nelle città costiere dove – alla luce del rallentamento delle attività delle imprese importatrici – la bolla immobiliare potrebbe interessare anche i capannoni industriali che cominciano a essere vuoti.
La Cina, finora, è stata in grado di sfuggire alla crisi, restandone intaccata in modo del tutto marginale. Nel corso del 2008, grazie all'intervento tempestivo del governo e agli stimoli fiscali, la Cina è riuscita a mettersi al riparo dalla crisi finanziaria e da un rallentamento troppo marcato, sebbene abbia subito una significativa riduzione del traino delle esportazioni. Nel 2009 dovrebbe ottenere una crescita superiore all'8%. Però i fattori di debolezza che esistevano e di cui si discuteva nel 2007 e all'inizio del 2008 prima della crisi internazionale rimangono in piedi. Nonostante l'intervento del governo, infatti, non è ancora avvenuto il passaggio da una economia trainata dagli investimenti a una, invece, guidata dai consumi interni, il che lascia in piedi il rischio che l'economia riprenda a crescere a un ritmo elevato ma con driver non sostenibili.
Quello che si evince dal modo in cui la Cina ha gestito la crisi, è che il governo ha le risorse finanziarie per poter rispondere a pericoli immediati. Quello che occorre capire in futuro è se le risposte che la Cina ha dato finora sono finalizzate e capaci di innescare una strategia di cambiamento strutturale del Paese. Il discorso quindi è ampio: contrastare il rallentamento va coniugato con la necessità di liberare la capacità di acquisto delle classi medie cinesi affinché diventino parte attiva del mercato, anche immobiliare.

D. Il collegamento è lampante. E di fatti c'è una grandissima attenzione in Cina anche alla Borsa dove sono finiti molti risparmi delle famiglie cinesi…

R. Sono finiti in Borsa in maniera accelerata rispetto alla conoscenza reale che la classe media cinese aveva in merito all'investimento dei risparmi nel mercato finanziario. In altre parole, non sempre chi investe è consapevole del fatto che si possa guadagnare ma anche perdere fino a tutto il capitale investito.

D.  Nell'erogazione dei crediti bancari previsti dal piano di stimoli, la mancanza di trasparenza nell'assegnazione dei fondi è un'altra issue. Si è confermata la linea di comando tra le banche cinesi e il governo che influenza pesantemente gli istituti di credito, e c'è chi si chiede se i soldi siano stati gestiti congruamente. Joe Horn (fondatore di Strategy613), intervistato da Agichina24, sostiene che se da un lato gli investimenti in infrastrutture sono abbastanza sicuri, dall'altro il governo avrebbe dovuto operare in maniera più aggressiva investendo su ricerca e sviluppo, nuove tecnologie, e le core industries. Prima domanda: la Cina è immune dalla malattia? Seconda domanda: come sono cambiate le banche in questa fase di apertura dei rubinetti del credito anche in termini di risk management?

R. Prima domanda. In Cina gli investimenti pesano per circa il 45% sulla composizione del Pil. Prima che venisse varato il pacchetto di risposta alla crisi, era evidente come la spesa governativa fosse stata quasi esclusivamente finalizzata agli investimenti pubblici. Non dimentichiamo come, dalla deflazione della seconda metà degli anni '90, la Cina sia uscita investendo pesantemente in infrastrutture pubbliche. Se facciamo un confronto tra Cina e India, dall'analisi dei vari indicatori economici emerge come la prima - dagli anni '90 ad oggi  - sia riuscita a colmare il gap che aveva nei confronti della seconda, con un sorpasso deciso. In altre parole, gli investimenti pubblici hanno avuto un target ben preciso. Non credo che oggi il passaggio da operare sia uno shift dagli investimenti fisici agli investimenti in ricerca e sviluppo; mi pare infatti che la Cina stia già investendo in modo massiccio su R&D, sia per iniziativa di attori pubblici, come le imprese di stato, sia per iniziativa di attori privati domestici e stranieri. Sono numerose le imprese nel settore high-tech ad aver spostato i centri di ricerca in Cina per la disponibilità di ricercatori a costi contenuti. 
Il tema è se il cambio di tono della politica economica sia in grado di spostare l'attenzione dagli investimenti a una crescita che liberi potere d'acquisto dei consumatori, funzionale a un mantenimento della tasso di crescita elevato del Pil ma anche a una staffetta fra le componenti di domanda in grado di causarlo.. E' questa la posta in gioco. E la Cina si gioca la partita, in grossa parte, su una riforma complessiva del sistema di welfare, necessaria per liberare i risparmi cinesi e rimetterli in circolo, sotto forma di maggiori consumi. Infatti, una quota significativa del risparmio delle famiglie cinesi è motivato da una forma di assicurazione implicita, per l'assenza di un sistema sanitario efficiente, per il costo elevato dell'istruzione, per l'assenza di incentivi alla disoccupazione e così via. La riforma, peraltro, è necessaria anche per favorire la modernizzazione delle banche: una riduzione del risparmio eccessivo ridurrebbe l'abbondanza di depositi di cui beneficiano e le stimolerebbe a una gestione più efficiente e prudenziale del credito.
Vengo quindi alla seconda domanda. E' troppo presto per dire se, nel corso della crisi, le banche siano migliorate in termini di risk management. I primi dati  relativi alla gestione dei crediti durante la crisi, per ora, sembrano confermare una elevata capacità di generazione di profitti che permettono di assorbire perdite su crediti e mantenersi profittevoli. Per capire se hanno operato con adeguata prudenzialità e attenzione al rischio nell'erogazione creditizia, occorrerebbe testare il sistema in una crisi più accentuata, che ovviamente si spera non avvenga. Ma finché il Pil continua a crescere con un tasso dell'8%, è difficile che le imprese falliscano e che quindi i prestiti diventino non esigibili in misura tale da vederne il peso sul bilancio delle banche.
Adottando un'ottica di lungo periodo, se analizziamo i dati dal 2000 ad oggi, emerge che la capacità delle banche di erogare credito nella maniera più adeguata, è sicuramente cresciuta. L'attenzione alla gestione dei portafogli creditizi è stata rilevante: se si guarda alla percentuale dei prestiti non esigibili sul totale dei prestiti delle grandi banche nazionali, siamo passati dal 20,4% registrato nel  2003, al 3-4% di oggi. Intendo banche nazionali a proprietà pubblica concentrata, quindi Industrial and Commercial Bank of China, Bank of China e China Construction Bank. Aggiungo un ulteriore tassello che va a comporre lo scenario del miglioramento del sistema bancario dal 2000 ad oggi. Sono state messe in pista una serie di regolamentazioni e di leggi che creano gli incentivi a erogare credito anche alle imprese private, non avvantaggiando, quindi, solo ed esclusivamente le aziende pubbliche in difficoltà. Uno dei segnali più evidenti è la creazione della China Banking Regulatory Commission, un organismo indipendente dalla Banca Centrale e che quindi opera con criteri relativamente più autonomi.
In conclusione, occorre ribadire un elemento di analisi già segnalato: gli istituti bancari hanno accesso a un ampia massa di depositi e, questa abbondante disponibilità di liquidità riduce l'attenzione a una erogazione maggiormente prudenziale. Peraltro, uno degli obiettivi che si è dato il governo – e che riguarda anche i suoi fondi sovrani – è quello di investire nelle banche cinesi, mantenendoli liquide e attive, per salvaguardare il sistema industriale. Per raggiungere questo obiettivo, il credito viene elargito anche laddove non sarebbe, forse,del tutto auspicabile.

D. Quanto le piccole imprese private si sono avvantaggiate dei prestiti allocati per i progetti previsti dal piano di stimoli?

R. Secondo i dati di una ricerca OCSE e National Bureau of Statistics Cinese, le imprese private cinesi che non hanno accesso al credito costituiscono il 41% del totale, un valore che cresce al 55% per quelle con fatturato sino a 130mila dollari. Ciò indica un problema tuttora esistente: il ricorso elevato all'autofinanziamento delle imprese private. La criticità va ravvisata nella proprietà del sistema bancario, che è pubblica e che tende a favorire l'erogazione a imprese di stato. La chiave di volta si configura quindi nel mettere in cambi un sistema di governance bancaria e di regolamentazione che incentivi le banche a erogare credito anche alle imprese private.. Per esempio, nel 2004 è stato eliminato il trattamento creditizio che discriminava il settore privato, ed oggi le banche sono in grado di offrire tassi di interesse favorevoli.

D. La cina è "drogata" dalla sottovalutazione dello Yuan. Shall China let it go? Si chiede di recente l'Economist. Se Wen Jiabao oggi la chiamasse al telefono per chiederle una consulenza ad hoc, quale strategia monetaria suggerirebbe al Premier cinese per fronteggiare le pressioni del Fondo Monetario Internazionale e della Banca Mondiale che vorrebbero imporre un apprezzamento del renminbi?

R. Il problema di fondo è traghettare la Cina da un sistema basato prevalentemente sull'export a uno basato sui consumi interni. Il passaggio si configura come lo strumento ideale per liberalizzare progressivamente il renminbi. Una crescita meno dipendente dall'export – per mezzo di maggiori importazioni, innescate da consumi domestici in crescita – consente di diminuire le eccedenze valutarie derivanti dall'interscambio e ridurre la necessità di sterilizzarne gli effetti, rendendo più indipendente la politica monetaria. Una riduzione dell'avanzo di parte corrente cinese riduce la capacità di finanziarie il disavanzo statunitense per mezzo dell'acquisto di obbligazioni in dollari, contribuendo alla riduzione degli squilibri globali. A sua volta, la minore dipendenza della crescita economica dalle esportazioni può rendere più agevole un progressivo apprezzamento dello yuan, propedeutico al processo di liberalizzazione della valuta stessa. Tutto questo meccanismo virtuoso, in conclusione, può essere innescato – insieme ad altre misure – dalla riforma del welfare cui facevo riferimento prima che riducendo l'eccesso di risparmio, libera risorse per aumentare i consumi domestici.

ADV