Torino, 28 gen. - Da che furono avviate nel 1975, le relazioni tra Unione Europea (UE) e Repubblica Popolare Cinese (RPC) sono maturate avendo come sfondo uno dei paradossi più interessanti delle relazioni internazionali contemporanee. Osservando in prospettiva storica la dialettica che intercorre tra Bruxelles e Pechino, infatti, assistiamo a una sorta di inversione dei ruoli: dopo essere stata la culla del concetto stesso di Stato moderno e la matrice di un sistema internazionale predicato sull'inviolabilità della sovranità nazionale, l'Europa si propone oggi come la più avanzata tra le esperienze di condivisione di quella medesima sovranità, integrando i tradizionali meccanismi di cooperazione intergovernativa con strumenti di governance sovranazionale. La Cina ha compiuto una transizione per molti versi opposta: per secoli sede di un impero che guardava a se stesso in termini di civiltà (Tianxia, "tutti sotto un unico cielo") più che come a una unità geopolitica discreta, nel XIX secolo fu costretta a mutuare le logiche di potenza occidentali per sopravvivere nel moderno sistema internazionale.
Quando negli anni '70 del secolo scorso Bruxelles e Pechino iniziarono il percorso che avrebbe portato alla firma dell'Accordo commerciale e di cooperazione tra Comunità europee e RPC (1985) – tuttora la cornice normativa dei rapporti bilaterali in attesa di un'intesa sul nuovo Accordo di partenariato e cooperazione in discussione dal 2007 – non mancava presso i leader cinesi una certa fiducia nella possibilità che l'Europa evolvesse in un attore unitario sulla scena internazionale. Nel 1970 i paesi membri avevano informalmente avviato la Cooperazione Politica Europea (CPE), antesignana della Politica Estera e di Sicurezza Comune (PESC), mentre nel 1974 si trovava l'accordo per l'elezione diretta del Parlamento Europeo. In questa fase il progetto europeo esercitava un'influenza normativa considerevole in tutta l'Asia orientale, se non nei termini di un modello da replicare, quantomeno come "ispirazione" per un nuovo approccio ai problemi dell'azione collettiva in un teatro regionale assai frammentato.
La fine della Guerra fredda avrebbe potuto portare alla riformulazione dello schema triangolare tipico del pensiero strategico cinese, superando l'assetto USA-URSS-RPC a favore di una nuova tripolarità USA-UE-RPC. Di fatto, però, questo passaggio non si è mai realmente compiuto. Al contrario, se un elemento di fondo può essere identificato osservando l'andamento dei rapporti tra Unione Europea e Cina nel 2010, è proprio questo: le celebrazioni per i 35 anni delle relazioni bilaterali hanno ironicamente fatto da sfondo alla presa di coscienza da parte cinese di non poter considerare l'Unione come un partner strategico a tutto tondo. Né si tratta di una consapevolezza limitata alla leadership cinese: anche dal punto di vista di Washington non è chiara la capacità dell'Europa di operare come un partner credibile sui grandi temi strategici che ruotano intorno all'ascesa della RPC. L'approvazione in novembre del nuovo Concetto strategico della NATO non basta a sopperire a quella che la maggior parte dei policy-makers e degli analisti statunitensi considera una carenza di prospettiva strutturale dell'UE.
In sintesi, l'Unione si presenta al mondo come un attore omogeneo ed efficace – una "potenza", per usare un termine ormai desueto – in un unico ambito: il commercio internazionale. È al contempo il più importante spazio economico del pianeta, un mercato imprescindibile per gli operatori americani così come per quelli asiatici, ma anche un "modello" in fatto di regolamentazione, capace di utilizzare vari strumenti negoziali per diffondere nel mondo le proprie prassi in ambiti fondamentali come i parametri ambientali, della sicurezza, della corretta competizione, dei diritti umani e della responsabilità sociale dell'impresa. Pechino è ben consapevole del fatto che anche dopo la Grande recessione del 2008-2009, l'UE resta il principale mercato di sbocco per le merci prodotte in Cina, mentre quest'ultima è la prima fonte di importazioni per l'Unione.
Nonostante l'involuzione dei rapporti tra le due parti nel 2010, culminata con il palese insuccesso del 13° Summit UE-Cina del 6 ottobre alla presenza del Premier cinese Wen Jiabao, il 2011 si è subito aperto con la visita in Spagna, Germania e Gran Bretagna di Li Keqiang, Vice-Premier e considerato il successore designato di Wen nel 2012. Li è stato accompagnato nel suo tour europeo da un gruppo di oltre cento tra i principali uomini d'affari cinesi, con l'obiettivo di imprimere nuovo impulso alla diplomazia cinese verso l'Europa.
In questo nuovo anno, dunque, l'obiettivo per l'Unione deve essere un reality-check della propria linea politica nei confronti di Pechino, che non si può sostanziare, ad esempio, in un successo meramente cosmetico in occasione del prossimo Summit bilaterale, magari ricco di sorrisi e povero di contenuti. L'era delle ripartenze di facciata e delle "nuove primavere" nelle relazioni bilaterali deve lasciare spazio al perseguimento di pochi, concreti e stringenti obiettivi, rispetto ai quali il successo possa essere misurato attraverso risultati tangibili incassati al tavolo negoziale. Il rischio, in caso di fallimento, è il perpetuarsi di un'irrilevanza strategica ancor più conclamata di quanto accade già oggi.
Nell'ultimo Summit del G20 a Seoul si è stabilito che una rilevante quota dei diritti di voto (il 6%) e due seggi nell'Executive Board del Fondo Monetario Internazionale siano trasferiti dall'Europa alle economie emergenti. Nel dicembre scorso il Board of Governors del Fondo ha approvato le riforme proposte con il 95,32% dei voti a favore, aprendo la strada alla ratifica dei paesi membri entro il 2012. Anche presso l'Organizzazione Mondiale per il Commercio (OMC) il 2010 ha segnato un momento di svolta per le relazioni UE-Cina nel più ampio contesto multilaterale: il 3 dicembre Pechino vinceva il primo contenzioso commerciale contro dazi antidumping imposti da Bruxelles.
E' possibile che l'Unione Europea non cerchi di tradurre il prezzo politico che accetta di pagare per rendere più rappresentativa l'architettura della governance globale in una narrativa che sappia guadagnare a Bruxelles un "moral high ground" politico, a partire dal quale recuperare visibilità e salienza nel dibattito internazionale e, in particolare, nelle relazioni bilaterali con Pechino?
di Giovanni Andornino
Giovanni Andornino è docente di Relazioni Internazionali dell'Asia Orientale presso la Facoltà di Scienze Politiche dell'Università di Torino e la Facoltà di Scienze Linguistiche dell'Università Cattolica del Sacro Cuore; è Vice Presidente di T.wai, il Torino World Affairs Institute.Dal 2009 Visiting Professor presso la School of Media and Cross Cultural Communication, Zhejiang University Hangzhou (PRC), Giovanni è Fellow della Transatlantic Academy del German Marshall Fund of the United States per il 2010.Giovanni è General Editor del portale TheChinaCompanion (www.thechinacompanion.eu), specializzato in politica, relazioni internazionali ed economia politica della Cina contemporanea. Dal 2007 coordina TOChina, l'unità di lavoro sulla Cina attiva presso la Facoltà di Scienze Politiche dell'Università di Torino.
La rubrica "La parola all'esperto" ha un aggiornamento settimanale e ospita gli interventi di professionisti ed esperti italiani e cinesi che si alternano proponendo temi di approfondimento nelle varie aree di competenza, dall'economia alla finanza, dal diritto alla politica internazionale, dalla cultura a costume&società. Giovanni Andornino cura per AgiChina24 la rubrica di politica internazionale.
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