Torino, 16 mag.- Lo scorso 7 maggio oltre 2 milioni di elettori singaporiani (sui 2,21 milioni aventi diritto) hanno manifestato la propria relativa insoddisfazione verso l'attuale governo della città-stato attribuendo alle opposizioni quasi il 40% dei voti per il rinnovo del Parlamento. Sebbene i meccanismi elettorali del paese – retto da una democrazia "guidata" sotto il controllo del Partito d'Azione Popolare (PAP) dal 1965, anno dell'indipendenza – abbiano attribuito comunque 81 degli 87 seggi in palio al PAP, si tratta di una dinamica fuori dall'ordinario per un sistema che si fonda sull'organizzazione capillare del consenso attraverso la presenza del governo in tutti i settori della vita economica e sociale (oltre che sulla frequente repressione del dissenso politico). Osservatori qualificati hanno parlato di una sorta di piccola, pacifica "Rivoluzione delle orchidee" (il fiore nazionale di Singapore), altri hanno messo in luce il ruolo determinante dei nuovi media quali veicoli di dibattito in un paese altrimenti privo di genuino pluralismo sui mezzi di comunicazione tradizionali. La più parte ha condiviso le ragioni profonde per un così spiccato pronunciamento popolare: la crescita economica galoppante ma diseguale, accompagnata da un costo della vita (e degli immobili) sempre maggiore e da politiche di accoglienza di lavoratori stranieri che tendono a deprimere le dinamiche salariali locali.
L'esperienza singaporiana è molto influente a Pechino, dove si guarda tradizionalmente alla piccola città-stato come a un modello di regime autoritario capace di coniugare una certa partecipazione popolare alla vita politica con un sistema a partito dominante e, soprattutto, una crescita economica sostenuta. Costituzionalisti e politologi cinesi sono consapevoli del fatto che il sistema-Singapore non è replicabile in Cina, sia per ovvie ragioni dimensionali, sia per motivi socio-culturali, a partire dalla minima diffusione della corruzione nel piccolo stato, a differenza di quanto accade nella RPC. D'altra parte, Singapore, popolata per il 74,1% da cittadini di etnia cinese, appartiene culturalmente all'Asia "sinica", ma non è pienamente democratica o alleata degli Stati Uniti al pari di Giappone, Corea del Sud (e, con i caveat del caso, Taiwan). Per questo la piccola città-stato in Cina rappresenta una prospettiva politically-correct per ragionare sul rapporto tra Stato e società civile nella RPC di oggi. Nonostante lo sguardo vigile delle forze di sicurezza, ad esempio, Singapore ha maturato un equilibrio che le consente di ospitare alcune delle realtà universitarie e dei think-tank più dinamici dell'Asia orientale, caratterizzati da una aggressiva politica di reclutamento che fa dell'isola un interlocutore anche intellettuale imprescindibile nella regione.
Il tema è di attualità crescente a Pechino, dove all'affermarsi di un pluralismo crescente di idee – specialmente sul web –, fa invece riscontro in questo momento una contrazione dei tradizionali spazi pubblici di dibattito (incluse le università) e una tendenza sempre più invasiva al controllo della popolazione da parte delle autorità. L'indirizzo dato dal Presidente Hu Jintao per la creazione di un archivio nazionale unificato che raccolga informazioni sull'intera popolazione (questo articolo) e in particolare sui "gruppi speciali" (quelli generalmente percepiti come in contrasto con l'art. 1 della Costituzione, che proibisce il "sabotaggio del sistema socialista") non pare fare da contrappeso a reali orizzonti di riforma del sistema politico cinese o a tentativi di impostare una pur graduale riconfigurazione del tacito "contratto sociale" che continua a postulare la limitazione delle libertà civili degli individui al servizio dello sviluppo economico nazionale.
Lo snodo è quanto mai critico. Se le istanze di una più pervasiva attività di "amministrazione della società" da parte del Partito-Stato dovessero realmente tradursi in un dirottamento delle naturali dinamiche di vita della già debole società civile cinese, la Cina rischierebbe di frustrare una porzione ancor più considerevole del proprio capitale umano e sociale (il vero serbatoio del soft-power di una nazione). Una simile dinamica, unita a un perdurante processo di ri-consolidamento delle imprese pubbliche a danno del settore privato (meno contiguo al potere politico e meno avvantaggiato in termini normativi e finanziari), permette di cogliere un orizzonte in cui l'efficienza complessiva del sistema-Cina rischia non soltanto di non aumentare, ma addirittura di declinare. È questo lo scenario da scongiurare: dinnanzi alle sfide complesse dalla nostra epoca, infatti, non soltanto al popolo cinese, ma al mondo intero conviene che quello che fu l'Impero di mezzo non accetti di involvere in una Cina dimezzata.
di Giovanni Andornino
Giovanni Andornino è docente di Relazioni Internazionali dell'Asia Orientale presso la Facoltà di Scienze Politiche dell'Università di Torino e la Facoltà di Scienze Linguistiche dell'Università Cattolica del Sacro Cuore; è Vice Presidente di T.wai, il Torino World Affairs Institute.Dal 2009 Visiting Professor presso la School of Media and Cross Cultural Communication, Zhejiang University Hangzhou (PRC), Giovanni è Fellow della Transatlantic Academy del German Marshall Fund of the United States per il 2010.Giovanni è General Editor del portale TheChinaCompanion (www.thechinacompanion.eu), specializzato in politica, relazioni internazionali ed economia politica della Cina contemporanea. Dal 2007 coordina TOChina, l'unità di lavoro sulla Cina attiva presso la Facoltà di Scienze Politiche dell'Università di Torino.
La rubrica "La parola all'esperto" ha un aggiornamento settimanale e ospita gli interventi di professionisti ed esperti italiani e cinesi che si alternano proponendo temi di approfondimento nelle varie aree di competenza, dall'economia alla finanza, dal diritto alla politica internazionale, dalla cultura a costume&società. Giovanni Andornino cura per AgiChina24 la rubrica di politica internazionale.
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