RIFLESSIONI SUL RICHIAMO ALLA RIFORMA CULTURALE

RIFLESSIONI SUL RICHIAMO ALLA RIFORMA CULTURALE

Shanghai, 04 nov. - A molti osservatori il richiamo alla necessità di una "riforma del sistema culturale", uscito dall'ultima sessione plenaria del diciassettesimo comitato centrale del PCC, svoltasi a porte chiuse a metà ottobre, è suonato strano.

 

La risoluzione, divisa in 9 sezioni e ufficilamente intesa ad "affrontare le sfide per promuovere lo sviluppo e la prosperità della cultura socialista", è apparsa a diversi osservatori come un modo per confondere le acque già agitate di un paese alle prese con  questioni molto più urgenti. In effetti il silenzio mantenuto sulla definitiva geografia che la forma del potere ai vertici del massimo organo direttivo del paese assumerà, in occasione del passaggio di consegna previsto durante il diciottesimo Congresso del PCC nel 2012 – è sembrato sostenere questa tesi.

 

Al posto di tutto ciò si è invece tornati a parlare di "ruan shil"i o soft power, il 'potere dolce' teorizzato dal politologo di Harvard Jospeph Nye all'inizio degli anni '90 e che secondo alcuni esperti, rappresenterebbe: "la cifra delle super potenze al proprio acme".

 

Divenuto un tema comune nelle discussioni politiche cinesi fin da quando Hu Jintao lo sdoganò all'ultimo Congresso del Partito Comunista nel 2007, la preoccupazione per il soft power cinese è un tarlo che riappare ciclicamente a turbare le notti della dirigenza al governo e pare ora tornata con prepotenza ai vertici dell'agenda politica nazionale. 

 

Non è da escludere che ad alzare il livello di attenzione sul vuoto valoriale che ha accompagnato la crescita economica del paese, finendo per divenirne il corollario, abbiano valso gli ultimi e ben noti fatti del Guangdong. Il caso della piccola Yue Yue (cui per la cronaca sono seguite due tragedie avvenute in circostanze abbastanza simili) e il polverone mediatico che ha sollevato, hanno ribadito come a mancare nel paese sia un sistema etico valoriale condiviso che regga alle trasformazioni in atto e sia in grado di traghettare la Cina nel futuro.

 

Come sempre più spesso accade, il ruolo giocato da internet è stato fondamentale e a Pechino devono aver pensato che se si vuole evitare che la rete si trasformi nel direttorio morale del paese, è necessario muoversi e al più presto.

 

Un tentativo di riattualizzare forme culturali e costruirci intorno un consenso è stato già fatto in occasione della spinta verso la riscoperta del confucianesimo e della sua tradizione. Qualche anno fa ci si è messo anche anche il premier Hu Jintao con la proposta di un sistema di regole morali, "Otto virtù e otto vergogne" (Ba rong ba chi) che nelle intenzioni avrebbero dovuto rappresentare una guida valoriale per la nazione.

 

Altra cosa ancora è poi il revival maoista proposto con ardore dal segretario del partito di Chongqing, Bo Xilai, che ha scaldato l'animo di molti, nostalgici e meno, ma che sembra mancare del fondamentale avvallo governativo. Nulla di tutto questo e però riuscito a cementare attorno a sè una sorta di morale pubblica, rendendo necessario un interveto più incisivo.

 

Viene allora da chiedersi cosa pensino i vertici del governo cinese quando parlano di: "alzare gli standard culturali del popolo, dare una spinta al soft power della nazione, diffondere la cultura cinese e costruire un paese socialista e culturalmente forte".

 

Quello che pare chiaro è che si tratta oggi della necessità, per il paese, di dare vita a un asset di valori intangibili, dalle specifiche caratteristiche cinesi e capaci di evocare un senso di appartenenza che valga prima di tutto per le proprie persone e che solo in un secondo tempo si profili anche all'esterno. Una brand China, insomma, talmente efficace da ribaltare la percezione del paese all'esterno e da divenire punto di riferimento per una nazione che sembra essersi smarrita.

 

I canali dell'industria culturale quali il cinema, l'arte, l'editoria, la televisione devono, nel pensiero del governo, divenire le leve di un più ampio progetto di costruzione di una coscienza nazionale più sana di quella attuale.

 

Uno dei tanti punti da chiarire in questa questione è come sarà possibile conciliare la priorità di una riforma della cultura, che evidentemente se è da riformare ha perso la sua forza propulsiva, con la necessità, richiamata dal responsabile della propaganda per il Politburo, di "salvaguardare la sicurezza culturale nazionale".

 

Riformare significa sostituire e sta ora alla Cina decidere che forma prenderà il proprio futuro culturale e non solo.  

 

di Nicoletta Ferro

 

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