Roma, 02 giu. - Giorgio Prodi è autore, insieme a Paolo Barbieri e Lelio Gavazza, del libro "Supply China Management", edito da il Mulino.
Il mondo si integra sempre più nella supply chain della Cina. Il 65% delle esportazioni cinesi è controllato da imprese che hanno capitale straniero. Una percentuale in costante crescita negli ultimi 10 anni che implica una maggiore integrazione tra le filiere produttive cinesi e quelle occidentali. Cambia la tipologia dei prodotti esportati e cresce l'export di prodotti più complessi che incorporano componenti importate da altri paesi ma sempre più componenti prodotti nel Paese. La Cina si sta rapidamente affermando come produttore di beni più sofisticati e inoltre aumentano le produzioni italiane che incorporano componenti provenienti dalla Cina.
Il libro si apre con una domanda: "È più sorprendente che la Cina si avvii a diventare la prima potenza al mondo oppure che non lo sia già"? Vorrei conoscere la sua risposta…
Chi conosce un po' la storia cinese, non può non sorprendersi del fatto che la Cina sia riuscita a superare un numero infinito di eventi disastrosi; basti pensare al Grande balzo in avanti o alla Rivoluzione culturale. Ecco, un Paese in grado di uscire in relativamente poco tempo da situazioni disastrose come quelle, non può che essere un Paese con doti formidabili. Non è, quindi, sorprendente che la Cina sia dove è adesso. La storia ci insegna anche che il Dragone per centinaia di anni è stato leader del mondo, poi ha perso per un lunghissimo secolo la sua posizione di vantaggio. Una crescita, quella cinese, caratterizzata quindi da alti e bassi. Anche oggi si evidenziano gli incredibili miglioramenti del Paese ma non bisogna dimenticare tutte le difficoltà che la Cina deve ancora affrontare.
L'Italia è il 21esimo Paese fornitore della Cina e rappresenta il 10° mercato di sbocco per le merci cinesi. Ma la Cina è l'unico Paese verso il quale, secondo dati istat, sono aumentate le esportazioni italiane anche nel 2009 nonostante la crisi.
Se si prendono in considerazione le statistiche cinesi, i dati non sono poi così certi. Comunque quello cinese è sicuramente il mercato che ha tenuto meglio. Alcuni settori hanno avuto performance molto buone come la meccanica. Siamo i primi fornitori della Cina nel settore abbigliamento e calzature. Purtroppo però questo settore pesa poco sulle importazioni cinesi e quindi i volumi, pur in forte crescita, non sono particolarmente significativi.
Vi sono imprese come Natuzzi e Sharmoon che realizzano prodotti con un forte contenuto di manodopera e per le quali il basso costo della manodopera cinese rappresenta la determinante strategica fondamentale. Altre imprese uniscono al minor costo del lavoro diretto, l'accesso a materie prime e componentistica che sono reperibili a condizioni competitive. Strutturando adeguatamente la propria supply chain è possibile ottenere prodotti e componenti di buona qualità a prezzi competitivi. Attenzione, però: sia per quanto riguarda il lavoro sia per gli acquisti di componenti, non si assiste alla ricerca spasmodica del prezzo più basso. La scelta di andare in Cina può anche essere guidata dall'abbattimento dei costi, ma poi nel Paese si cerca una qualità adatta ai prodotti italiani.
Come delocalizzano le nostre aziende?
Alcune aziende analizzate nel libro, come Comer, lavorano con strutture proprietarie e ricorrono al mercato cinese sia per l'acquisto del prodotto finito, che poi rivendono con il loro marchio, sia di componenti meccanici utilizzati anche nella produzione localizzata in Italia. In alcuni casi è la delocalizzazione produttiva che permette un aumento della fornitura dalla Cina, in altri casi è invece la rete di fornitura cinese che precede e facilità la delocalizzazione produttiva. Ogni impresa sceglie una sua via al mercato cinese che dipende dal settore dalla tipologia dei prodotti, dalle dimensioni e anche dalla storia dell'impresa.
Insomma, nel momento in cui i tuoi principali clienti delocalizzano in Cina, non hai alternative…
Questo è vero per alcune imprese. Se un'azienda lavora come fornitore di un gruppo più grande che decide di investire in Cina, seguire l'investimento cinese diventa quasi obbligato. In alcuni casi l'azienda italiana può continuare a fornire il cliente dall'Italia, ma accade spesso che sia proprio il cliente stesso a chiedere ai fornitori storici di trasferirsi in Cina sia per accorciare i tempi sia per abbassare i costi della fornitura. Va da sé che avere un importante cliente in loco è di grande aiuto: se in Cina puoi già contare sulla domanda, questo ti permette di concentrarti sulla costruzione della tua rete di fornitori o dell'impianto. In molti casi questa non è una scelta, ma un imperativo: se non segui il fornitore in Cina, il rischio è di perdere le forniture anche sugli altri impianti. L'evoluzione della struttura del mercato mondiale di approvvigionamento guida spesso verso scelte che appaiono obbligate. Ci sono prodotti, come ad esempio la coltura del baco, ma anche la produzione di componenti elettrici e di alcuni prodotti chimici, che sono reperibili ormai solo sul mercato cinese. In alcuni casi la Cina è rimasta l'unica alternativa, bisogna essere lì.
La Cina è talmente dinamica e in continua crescita che si trova veramente di tutto, da fornitori avanzatissimi a imprese molto piccole che producono a prezzi bassissimi ma con una qualità assolutamente insufficiente. La realtà che continuiamo a riscontrare è che spesso le imprese italiane non hanno i numeri per rivolgersi ai produttori più grandi e qualitativamente più solidi che riforniscono le aziende più strutturate, e sono spesse costrette a lavorare, quindi, con fornitori di seconda fascia. Quest'ultimi possono essere più interessati a volumi più bassi e possono vedere nell'impresa italiana una opportunità di upgrading tecnologico e produttivo. Il trasferimento di competenze è un fattore critico. Certo, si tratta di un rapporto complesso da costruire e mantenere nel tempo che non sempre può essere basato su contratti scritti. In generale, se da un lato possiamo parlare di un progresso nel rispetto delle normative rispetto a cinque anni fa, siamo ancora lontani da una formalizzazione che può far star sicuri.
Questo è vero in alcuni casi. Molto dipende dal tipo di produzione. A volte, per alcuni prodotti, è necessario rifornirsi della succursale della multinazionale o per motivi di omologazione o per ragioni di qualità o ancora perché così viene richiesto dai propri clienti. I fornitori cinesi, infatti, non ti garantiscono sempre la costanza nella qualità: più facile fidarsi di un fornitore straniero, sebbene costi un po' di più. Ovviamente è sbagliato pensare di poter replicare con la multinazionale in Cina il rapporto che si ha con la multinazionale in Italia. Se in Italia, infatti, si può essere clienti molto importanti per una multinazionale in Cina la considerazione che avrà la multinazionale nei tuoi confronti sarà comunque inferiore.
Le strategie di approvvigionamento cambiano poi in base all'attività svolta…
…sia dal tipo di prodotto che dall'esperienza dell'impresa. Poi, col tempo, si può diventare più selettivi. Se si costruisce un sito produttivo, in una prima fase può essere necessario internalizzare fasi produttive che in Italia sono invece lasciate a terzi. Con l'aumentare dei volumi e della conoscenza del mercato queste fasi possono essere nuovamente esternalizzate, mentre è possibile che altre funzioni come la Ricerca e sviluppo o la progettazione possano essere, in parte, portate in Cina. La crisi ha in molti casi fatto peggiorare la qualità delle forniture. Il turn over, già elevatissimo dei lavoratori delle imprese cinesi che esportano componenti in Italia, con la crisi si è aggravato, provocando una emorragia di personale qualificato. Quando sono ripartiti gli ordini, è accaduto che gli operai non fossero più quelli che avevano fatto l'ordine precedente. E quindi si sono riproposte problematiche che erano state superate cinque anni prima.
Quanto conta ancora oggi la dimensione extra-contrattuale del guanxi, per aziende come Pirelli, Natuzzi, Beghelli, per le quali la Cina è un nodo integrato?
Ovviamente conta meno per i grandi gruppi, che sono più strutturati e per le quali il livello di guanxi, e quindi di relazioni informali, è meno centrale o comunque più consolidato. Le guanxi rappresentano comunque un meccanismo importante e dal quale non si può prescindere. Ma rimango dell'idea che si tenda ad attribuirvi un'importanza eccessiva; le guanxi - o meglio la mancanza di guanxi adeguate – passano spesso come la causa di ogni tipo di fallimento in Cina. Quando si compie un errore strategico, ci si giustifica dicendo: "non avevo i giusti contatti, non avevo le giuste relazioni". A volte è vero, ma altre volte l'operazione fallisce perché non si conosce bene il mercato o perché si è sbagliata la strategia e si sono mandate in Cina le persone sbagliate.
Nella strategia di internazionalizzazione degli acquisti, avete riscontrato similitudini con le strategie adottate dalle aziende europee in Cina?
Come abbiamo detto, spesso la ridotta dimensione delle imprese italiane rispetto ai competitor europei costringe a perseguire strategie di second best. Le imprese italiane sono d'altro canto caratterizzate da una maggiore flessibilità, dalla capacità di adattarsi meglio alle condizioni difficili del mercato cinese. Non avere però grandi imprese che fanno da traino, come in Germania o in qualche caso la Francia,è un grosso limite: una cosa è andare in Cina a seguito della Bosch, un'altra è andare da solo senza poter contare su grandi risorse. Scontiamo ancora la mancanza di grandi gruppi.
La dimensione d'impresa continua quindi a essere un vincolo per la crescita futura, anche nella visione di un sistema più integrato delle filiere globali?
Sa un lato c'è anche qualche difficoltà in più, dall'altro il nostro vantaggio è che siamo abituati come sistema produttivo a lavorare in filiere aggregate. Dovremmo affermare una mentalità diversa, capire che avere una filiera lunga non significa che non si vuole più produrre in Italia. La visione obsoleta per cui le imprese devono investire anzitutto in Italia e non vanno aiutate le imprese che delocalizzano, può essere deleteria. Mi riferisco in modo particolare al dibattito sugli incentivi alle imprese, dove c'è chi non vuole finanziare le imprese che delocalizzano. Spesso si ignora che in molti casi la delocalizzazione è fondamentale per mantenere le attività produttive in Italia. Il problema delle piccole medie imprese si ripercuote anche sul sistema Paese: è difficile coordinare l'attività di una miriade di piccole imprese, e il sistema Paese soffre di questa struttura, una struttura che – va detto - va a braccetto con le caratteristiche peculiari dei nostri imprenditori ai quali tutto sommato piace andare all'assalto dei mercati del far east da soli. L'imprenditore italiano, se da un lato non trova i servizi, dall'altra non li cerca neanche, ma preferisce muoversi da solo. Purtroppo è un circolo vizioso.
di Alessandra Spalletta
Ascolta l'intervista di AgiChina24 a Giorgio Prodi su Radio Radicale
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