R.: Siamo presenti in Cina già dal '95, prima conuna filiale commerciale e poi con la costituzione di una joint venture con unagrande azienda locale, la Xinhua Pharmatech, quotata alla borsa di Shanghai e attivanel campo medical-ospedaliero. La joint venture era stata realizzata per lacostruzione di macchine percolatrici, ovvero le macchine che inseriscono lapolvere dentro le capsule; successivamente ne abbiamo acquistato il 100%. Laragione che ci ha spinto a realizzare l'operazione con Mandarin è moltoarticolata: eravamo alla ricerca di un'alleanza strategica, vista l'importanzache la Cina starappresentando nel nostro parco commerciale estero; basti pensare che nel 2009abbiamo acquisito ordini per 50 milioni contro una media di 10 milioni divenduti registrata negli ultimi 3-4 anni di venduto. Si tratta di un aumentoeclatante; ma riteniamo che si possa fare molto di più, visto che la quotad'investimento che il mondo cinese vuole veicolare nei prossimi anni sugli impiantifarmaceutici è di circa 300 milioni di euro all'anno. Ora, nella fascia di piùalta tecnologia, che è quella che rappresentiamo, può competere solo un pugnodi aziende italiane e straniere, e i nostri principali competitor sonotedeschi. Le aziende tedesche in Cina sono abituate a operare con una coperturaistituzionale che noi italiani non possiamo, purtroppo, vantare: ecco alloral'idea di lanciare un'alleanza istituzionale con un fondo come Mandarin, il cui50% è detenuto da due pilastri della struttura finanziaria cinese come ChinaDevelopment Bank e China Exim Bank, e la cui restante metà è italiana (il cornerstone investor italiano è IntesaSanpaolo). Mandarin vanta una rete di contatti che dovrà aiutarci arintracciare qualche realtà locale produttiva interessante per aumentare lanostra base produttiva. Quindi, si tratta di un'alleanza di tipo istituzionale,non industriale; perché riteniamo che il mercato cinese sarà il mercato esterodi riferimento nel prossimo futuro, il mercato più dinamico dei prossimitre-quattro anni, sul quale occorrerà strutturare un rapporto istituzionale.
D.:Non si tratta, quindi, di un'alleanza che mira a una delocalizzazione?
R.: Nel nostro settore di macchine unadelocalizzazione tout court non è possibile. La testa di Ima e una partesignificativa della produzione - il prodotto di fascia più alta - rimangono inItalia. Ci sono poi fasce di prodotto che vanno certamente fabbricate in Cina eche non avrebbe più senso mantenere produttivamente qui; questo comporteràun'implementazione e un allargamento della nostra base produttiva in Cina.Ribadisco, però, che si tratta di un'alleanza istituzionale: ci siamo trovati alavorare con persone splendide, molto lungimiranti e con una velocità direazione impressionante. Penso che molte strutture finanziarie occidentaliavrebbero parecchio da invidiare all'approccio che mantengono i nostri partnercinesi.
D.:Ha fatto riferimento a una "maggiore copertura" della quale le aziende tedeschepossono godere in Cina rispetto a quelle italiane: che tipo di coperturachiedete a livello istituzionale?
R.: Una premessa: le aziende italiane del nostro settoreche operano in Cina vedono da sempre nei tedeschi il concorrente tradizionale.Abbiamo potuto riscontrare sul campo una straordinaria forza del sistematedesco rispetto a una forza non equivalente del sistema italiano. Non è unproblema di ignoranza; semplicemente, in Italia esiste un rapporto tra impresae istituzioni in Italia diverso da quello che esiste in Germania. In Germaniasi muove lo stato tedesco; quando ci muoviamo noi, ci si muove prevalentementeda soli. Negli ultimi anni, i governi di ogni colore hanno effettivamentetentato di aprire un dialogo con la Cina, ma non è strutturalmente paragonabile a quello che hafatto la Germaniaper decenni, e il risultato si è visto quando è esploso il mercato locale.Nell'immaginario collettivo cinese quella tedesca rappresenta la tecnologia conla "T" maiuscola, ma non è vero che i cinesi ci snobbino; anzi, sono moltointeressati alle soluzioni italiane. In Italia, ad esempio, si potrebberoconcentrare eventi sulla meccanica a livello mondiale; si potrebberoorganizzare incontri, forum, meeting, su argomenti sui quali il nostro paese èassolutamente all'avanguardia. È questo che chiediamo allo Stato: che si facciagrande garante di una credibilità, alla quale poi corrisponde effettivamenteuna tecnologia di altissimo livello. Si tratta di uno sforzo che non possonosostenere né la singola impresa, né le associazioni di categoria.
D.:Cosa consiglia agli imprenditori italiani che vogliono sbarcare in Cina opotenziare la loro presenza?
R.: Unconsiglio di fondo: le joint venture veramente di successo, forse non solo inCina, possono contarsi veramente sulle punte delle dita. In Cina, poi, ci sitrova di fronte a imprenditori dinamici, capaci e molto furbi; quindi lasituazione si complica ulteriormente. Ritengo che oggi Pechino offra questapossibilità, e che non si debba minimamente avere timore di aprire una propriarealtà lì: se un imprenditore è sul punto di fare una joint venture, faccia unosforzo in più e costruisca in Cina una struttura sua al 100%, insediandosilocalmente in maniera significativa. Secondo consiglio: non avere paura dellestrutture finanziarie cinesi e anzi appoggiarsi ad esse ora più che mai; sitratta di strutture serissime, capaci, con una buona conoscenza dei mercatiinternazionali. Si tratta di quadri formati in Occidente, rientrati in Cina eche, grazie alla grande forza economica e finanziaria che detiene il loropaese, sono riusciti a essere più dinamici dei nostri. Terzo punto: investirein management italiano pronto a trasferirsi in Cina, anche per lunghi anni,perché è una mossa fondamentale ai fini di un processo di formazione. In Cinail manager già strutturato ha possibilità immediate di inserimento nellemultinazionali, quindi c'è bisogno di una formazione embrionale del management,che è possibile solo attraverso l'immissione di una dirigenza occidentale.
D.:Vista la sua posizione di presidente di un'azienda leader in un certo settorehi-tech, non teme il trasferimento di tecnologie?
R.: Il trasferimento di tecnologie, ovviamente, vafatto cum grano salis, ma averetimore del trasferimento di per sé è del tutto anacronistico. Si pecca discarsa lungimiranza e ci si preclude l'accesso a un mercato di importanzacapitale.
di Antonio Talia