Simone Pieranni, 43 anni, giornalista, ha vissuto molti anni in Cina, dove ha fondato l’agenzia di stampa China Files. Oggi lavora al quotidiano “il manifesto”. Autore di numerosi libri, tra cui il recente Cina Globale (Manifestolibri 2017). Ha scritto Settandadue (Alegre 2016). Questo è il suo secondo romanzo.
Un trauma puoi raccontarlo solo quando si trasforma in dolore. Ci vuole tempo. Un viaggio, la fuga. Da dove tutto ha inizio, a Bolzaneto; qui sei cresciuto, nella fuliggine delle acciaierie, lontano dal mare. Di dove sei? All’improvviso la risposta suscita movimenti impercettibili nelle labbra e negli occhi di chi ti ascolta. La tua casa diventa simbolo di una ferita collettiva. Quello che è accaduto nel luglio del 2001 lo hai prima vissuto da protagonista, poi lo hai raccontato da cronista. Hai provato a dimenticare tutto. La ritrovi come la ricordi, sfuggevole, ventosa. La città fondata da Giano, stretta tra i monti e il mare, che nel 1200 il mercante Guglielmo Boccanegra ammirava dal suo palazzo che sembrava una nave, da cui molti prima o poi fuggono, alla ricerca di un luogo che le somigli, e dove tutti – prima o poi - ritornano.
La scusa per tutto quanto succede a Genova è la Macaia, quel “sentimento putrido e soave” che dà il titolo al tuo libro. Sto divagando. Ci sto arrivando. Rieccoti dunque qui. In quel percorso che ha caratterizzato la tua vita. Da Ovest a Est. Perché? La caserma. Il trauma. La rabbia. Il senso di colpa. Azzuffarsi, sentirsi fuori posto. La fuga, prima parziale a Milano, da dove torni ogni mattina per documentare le udienze, con una focaccia alle cipolle che arriva secca sullo stomaco, poi totale a Oriente, in Cina. La tua città ti aveva piantato in asso. O forse eri tu a esserti perso. Non c’era più lui a cui dire tutto. Forse, avevate smesso di parlare prima che tutto cambiasse. Prima che non ci fosse più: tuo padre. Sei andato via non sapendo curare le ferite. Si scappa da ciò che non si capisce. Alla fine sei tornato. Hai capito che il segreto è farsi trovare pronto. Il mare ti restituisce le parole che non hai detto. Le hai covate mentre eri lontano. Alla fine i conti li hai fatti: hai scritto questo libro. Forse è un inizio. Genova sei tu. Ogni strada che percorri a ritroso è un attraversamento sentimentale. La città si nasconde, e si svela, in un continuo salire e scendere. Schiva, eppure feroce, avvolgente, come la tua scrittura che scorre come acqua tra le pietre, procede senza indugiare, con riservata ironia, quando il dolore ribolle, sposti il cursore, arriva una storia diversa, la spieghi quasi fino a sfiorare il fondo - ti fermi un attimo prima di scivolare nel buio. Ma non è così. La luce irrompe dalle viuzze del centro in cui ti immergi mentre recuperi ogni storia.
A Genova ci sono luoghi dove bisogna camminare con lo sguardo fisso in alto, altri che ti obbligano a tenere il naso basso ad annusare gli odori. Una moltitudine di voci svelano il tuo percorso. Ciascuna parla parole diverse, eppure i linguaggi si fondono. Tua nonna, operaia, bottegaia, madre di tuo padre, che da ragazzino ti cuciva le magliette del Genoa. Avevi gli occhi sulle punta delle dita (volevi toccare tutto, capire tutto). Tuo zio F. alla ricerca di origini inghiottite dal mare. Ghedda il bandito aristocratico che sguazza nel ventre fetido della città. Tuo padre che di te sapeva tutto anche quando le parole erano già morte. Genova è un modo di essere.
Nella storia hai messo (quasi) tutto. Una mappa geografica, storica, emotiva. Anche il lettore che non c’è mai stato ha la sensazione di percorrere luoghi familiari. Il mugugno di Genova, quel sentimento di aver subìto un torto. Il senso di abbandono nel dopoguerra. Le trasformazioni indigeste. La globalizzazione che casca addosso alla città. La vita che cambia in fretta. Dal porto che movimenta merci ai due mondi racchiusi nel centro, quello dei quartieri ricchi e quello dei vicoli infami, dove anche la criminalità si riorganizza. Il presente impregnato di passato. I genovesi che da soli cacciano via i tedeschi sminando il porto nel 1945. Gli scontri del 1960 quando Genova comunista dice no al congresso dell’Msi, “belin, ma siamo matti”. La leggenda del Balilla. E più indietro ancora, la disfatta dopo il Medioevo, Cristoforo Colombo che apre i mercati, la città dilaniata da francesi e spagnoli, Andrea Doria che la salva. Tutti vogliono fare i conti con Genova. In mezzo ci sei tu.
Hai studiato le cartine. Dall’alto la città sembra un Drago. L’uscita Genova Ovest della sopraelevata, squallido ma poetico passaggio al mondo che ti aspetta oltre gli angusti confini di Bolza. Il centro storico cantato da De André, l’oscurità dei caruggi che nascondono segreti, ingannano, in una mescolanza di eleganza e degrado, dall’Africa si passa alla Cina. Quel centro che per i genovesi è il più grande d’Europa. (Megalomani, avidi, diffidenti: tutto falso, tutto vero). Lo stesso centro che rappresenta la fine di un percorso, il distacco con tuo padre. A Genova Est, lo stadio da ragazzino con tuo nonno materno, il fumo nero dei lacrimogeni brucia una generazione. Gli scogli di Genova Nervi, la tua nuova culla, dove volgi lo sguardo al mare. I misteri si rischiarano. Uscita autostradale dopo uscita autostradale. Il viaggio volge al termine. Forse ne hai appena iniziato un altro. “La vita cambia in un istante. Un normale istante” (Il tuo omaggio a Joan Didion).
Simone Pieranni,“Genova Macaia. Un viaggio da Ponente a Levante” (Laterza, 2017, 14 euro).