Al tempo del liceo andavo in giro con una maglietta in stile NoFx che riportava la faccia dell'ex-presidente americano George W. Bush e la scritta a lettere cubitali “Not My President”. In quel periodo ospitavo un sedicenne di Seattle con intercultura, di famiglia abbiente e repubblicana, che non capiva bene perché un italiano dovesse andare in giro a ribadire ovvietà, affermando come un presidente straniero non fosse il proprio presidente. Sta di fatto che, nel dubbio, prima di ripartire si comprò una bomboletta e scrisse sul muro del liceo “Non sei mio Preside”.
Era il 2006, e per quanto scherzassimo e non comprendessimo ancora la profondità di certe dinamiche, ci eravamo collocati sulla scia di un movimento che da qualche anno si stava iniziando a diffondere nel mondo in contrasto alla decisione di Bush di invadere l'Iraq. Una decisione che cavalcava l'ondata di dolore dell'11 settembre, con pretesti poi infondati di presunte armi atomiche, e soprattutto senza il consenso delle Nazioni Unite: agendo di fatto da “Presidente del Mondo”.
Un'azione che a distanza di 10 anni, il 20 febbraio 2017, ha portato all'istituzione del Not My President Day, in reazione alle aggressive politiche di Trump, nel giorno di nascita del primo presidente Washington. Oggi a pochi giorni dalla ricorrenza, il fenomeno è riesploso negli Stati Uniti e in altri paesi occidentali, ma questa volta in riferimento al Presidente cinese Xi Jinping e alla decisione dell'Assemblea nazionale di abolire il suo termine di due mandati, conferendogli di fatto la possibilità, seppur non la certezza, di rimanere in carica a vita.
La protesta è partita dall'account Twitter “Xi's Not My President” (@stopxijinping), il primo di marzo a San Diego, nell'Università della California. Un'avvenimento inaspettato se si pensa che si tratta della stessa università dove un anno fa gli studenti cinesi protestarono contro la visita del Dalai Lama, in difesa di Xi, della Repubblica e della sua unità. Oggi invece alzano la voce proprio contro il proprio presidente. Il profilo Twitter degli organizzatori è seguito da quasi 2500 utenti (di cui numerosi reporter cinesi) e ha promosso la diffusione di poster in dozzine di università americane, britanniche, canadesi ed australiane.
“Voglio che le persone sappiano che...potrà governare a oltranza come Mao Zedong” racconta Wu Lebao, studente cinese dell'Australian National University. Questo “pone un grande pericolo per la Cina e potrebbe portarci verso un altra Rivoluzione Culturale”.
Salaiman Gu, è invece un dottorando cinese di minoranza musulmana Hui che studia chimica all'Università della Georgia, è ha diffuso una campagna alternativa in 7 università con lo slogan “Never my President”. Le parole di Gu sono dure, e riflettono una visione comune nelle minoranze separatiste. “L'attuale quadro totalitario basato sulla conquista militare e sulla repressione politica è inaccettabile, non importa cosa dice la finta costituzione a proposito della presidenza non-eletta di Xi. Con o senza termini di mandato, non è mai stato il nostro presidente e la Cina comunista non è la nostra patria”
Gli organizzatori dell'account @Stopxijinping raccontano a Foreign Policy che “la principale forza motrice dietro la crescita cinese negli ultimi 30 anni è stata il ricambio di leadership a livello istituzionale” una rarità in regimi così autoritari. Da studenti all'estero l loro compito è concepito come una missione morale: sensibilizzare i cinesi d'oltremare rimasti indifferenti ma soprattutto “parlare per chi non può... per tutti quelli zittiti, insultati e feriti in patria, ora che la nostra libertà di pensiero qui è protetta”. In Cina infatti la campagna è stata bloccata su Weibo, il Twitter cinese, e gli stessi organizzatori hanno scoraggiato l'affissione di poster nelle università cinesi invitando a “proteggere se stessi per combattere un altro giorno”.
Non solo per gli studenti, ma anche secondo moltissimi sinologi l'abolizione del termine di mandato rappresenta un passo indietro per la Repubblica Popolare: una deriva autoritaria che ha garantito a Xi l'epiteto di “presidente di ogni cosa”, insieme alla fine del denghismo e della leadership collettiva, del germogliare dello stato di diritto e di una società civile che hanno permesso alla Cina di differenziarsi dai principali sistemi neo-leninisti.
Tuttavia, come spiegato da Giovanni Andornino ad Agi, si tratta di una nuova Cina in un nuovo contesto internazionale, che non necessariamente condurrà agli esiti del passato. In patria, il Nuovo sogno e la Nuova Era di Xi hanno accresciuto la sua popolarità e fiducia, ridotto corruzione e fazionalismo e incrementato gli sforzi di sviluppo ecosostenibile, mentre promuovono, con le criticità che ne derivano, immensi piani di urbanizzazione che mirano a eradicare oltre 400milioni di persone dalla povertà e convertire il modello manifatturiero in una società di consumi.
A livello globale vogliono invece rendere la Cina leader di innovazione e sviluppo, proteggerla da ingerenze occidentali e minacce territoriali, e affermarla come nuovo egemone mondiale. Come anche scritto da Cecilia Ghezzi per Lettera43 “È evidente che per perseguire questi obiettivi ha bisogno di più di altri cinque anni”. Non serve solo una leadership forte, serve una leadership inarrestabile.
Non è dunque un caso che Xi stia iniziando ad essere percepito dal movimento di protesta allo stesso modo di Bush, come un leader pronto a fare le veci di nuovo Presidente del Mondo, capace di determinare sempre più gli equilibri geopolitici. Ed è per questo che il #NotMyPresident sta contagiando anche non cinesi.