Quando e' arrivato in Cina? Dopo gli studi a Stanford, qual e' stato il driver che l'ha spinta a investire in questo Paese?
In Cina da sei anni, in Asia da dieci. Sono arrivato in Cina, come tanti altri, inviato come expatriate manager dall'azienda per cui lavoravo all'epoca. Provenivo da una serie di esperienze professionali che mi avevano portato a vivere alcuni anni a Taiwan lavorando nel settore moda. Dopo gli studi di master a Stanford, ero entrato in Logitech, multinazionale svizzera leader in elettronica di consumo e famosa per la produzione di mouse, webcam e tastiere. Fu proprio Logitech a decidere che fosse giunto per me il momento del grande salto: dagli USA in Cina come Marcom Manager for Greater China (per i non addetti ai lavori, marcom: marketing & communication), forte anche della padronanza nella lingua cinese acquisita negli anni a Taiwan. Non vi e' stata quindi una convinzione personale, una spinta netta, nella scelta di trasferirmi in Cina. Fatta questa doverosa premessa, non posso tuttavia negare che dei dieci anni passati in Asia i sei in Cina costituiscono un investimento enormemente proficuo. Se dovessi individuare due driver fondamentali che danno valore all'esperienza Cina (sopratutto per chi proviene da una realta' italiana), indicherei da un lato le maggiori opportunita' di crescita professionale offerte da un mercato e da un Paese che rimangono tuttora estremamente "ostici" su diversi fronti (in Cina si vede davvero di che stoffa sei fatto), dall'altro l'exposure che la Cina offre non tanto alle realta' aziendali cinesi (che rimangono lontane da noi) quanto al pool di talenti della comunita' internazionale che convergono da tutto il mondo. Sono chiavi di lettura forse controverse, ma che a mio avviso mettono a fuoco come la Cina sia un paradosso professionale proprio gli elementi che la rendono una Grande Palestra si configurano nel gap che ancora la separa dalle economie mature e il lack di management locale. Aspetto, quest'ultimo, che rende ancora pregnante il bisogno di attrarre talenti dal resto del mondo.
Da Telecom/Olivetti alla logistica, dalla Cina al Giappone: quali sono gli asset vincenti che hanno delineato il suo percorso professionale?
L'esperienza in Telecom/Olivetti e' stata determinante in un percorso professionale nel quale ho sempre cercato - al meglio delle mie possibilita' - di disegnare una parabola che abbracciasse diversi mercati, settori e tipologie di target cliente. Telecom/Olivetti e' stata la piattaforma ideale da cui ho cominciato a gestire, oltre alla Cina, i maggiori mercati dell'aerea Asia Pacific. Lo shift professionale e' stato graduale e incisivo: sono passato dal settore high-tech/consumer electronics a quello delle tecnologie specializzate ICT, confrontandomi via via con commesse verso grossi clienti istituzionali. Oggi sono approdato nel settore della logistica come responsabile di una struttura articolata sul territorio. La mia nuova posizione mi consente di capitalizzare il network di contatti – le guanxi acquisite nei lunghi anni cinesi - per costruire una base di clienti tra le aziende italiane in Asia. Il futuro? Non nascondo un grande interesse verso il Giappone, Paese di cui parlo discretamente la lingua e dove ho iniziato a lanciare una serie di ami. Mercato maturo e sofisticato, il Giappone per molti aspetti si pone agli antipodi rispetto alla Cina. Ma il cambiamento e' fonte di stimoli – e le nuove sfide mi hanno fatto segnare i gol migliori della mia vita. Insomma, il cambiamento non lo vedo come un elemento destabilizzante, ma come fonte di miglioramento e crescita. Gli asset piu' preziosi, in altre parole, sono l'apertura mentale e la capacita' di trasformare le difficolta' in strumenti di crescita.
Scenario crisi globale, la Cina e' in ripresa. Strategia aggressiva o lenta ritirata? Quali ripercussioni si sono avute nel settore della logistica in termini di margini e fatturato? Quali reali prospettive per il futuro?
Il settore della logistica ha subito l'impatto della crisi con effetti in molti casi devastanti, soprattutto per i gruppi non diversificati. Molti armatori sono falliti, trovandosi senza capitale per finanziare le operazioni e pressati dall'azzeramento dei margini. La situazione si e' ora stabilizzata ma diverse aziende hanno registrato cali di fatturato del 30-40%, con perdite di produttivita' in alcuni casi del 60%. A mio avviso la Cina e' riuscita a resistere alla crisi grazie al binomio qualita'/difetti che rende lo sviluppo sostenibile dell'economia del Dragone problematico sul lungo periodo. Mi spiego: solo un sistema politico "autoritario" che dispone del sostegno quasi incondizionato e spontaneo della popolazione e' in grado di imporre misure marco-economiche e politiche industriali ad hoc con tale, straordinaria, efficacia. Tuttavia un elemento di fragilita' va colto, a mio avviso, nel fatto che alla lungimiranza della classe dirigente, si contrappone la debolezza del tessuto imprenditoriale cinese che dopo trent' anni dalle riforme, produce solo per conto terzi o per il mercato interno.
Immagino che per mercato interno si riferisce alle piccole e medie imprese del settore privato, di recente emersione, non i campioni nazionali selezionati dalla SASAC e quotati in borsa, che pur facendo shopping di brand internazionali e investendo massicciamente all'estero, rappresentano pur sempre una minoranza. Nel 2004, secondo dati OCSE, il settore statale incide per il 35% sull'output industriale, il resto e' imputabile al mare magnum di imprese private.
Proprio cosi'. E la vera sfida della Cina sara' quindi diventare un economia "normale" e non un'altra Russia. L'obiettivo e' diventare un sistema economico che produce conoscenza, innovazione e brand internazionali. L'India, nonostante la poverta' estrema, ci e' riuscita. La Cina - nonostante l'impegno della classe politica e una politica economica intelligente - ancora no.
Come ha vissuto la celebrazioni del sessantesimo anniversario della fondazione della RPC? Cosa si aspetta ancora dalla Cina? Il Dragone mira al di la' della crisi, o Segni guarda gia' al di la' del Dragone?
Non ero in Cina per la Festa Nazionale. Ho assistito quindi alle celebrazioni a distanza, da un'ideale tribuna che mi ha consentito di analizzare l'evento con sguardo lucido, senza l'inevitabile contagio emotivo che avrei subito se mi fossi trovato immerso nei festeggiamenti. Ho messo piede la prima volta in Cina da studente nel 1993 e in questi anni ho visto un Paese che, dopo anni di chiusura e di azzeramento storico-culturale, cercava con successo una propria via. Oggi attraverso una serie di eventi che simboleggiano la rinascita del Dragone - dall'imponente preparazione alle Olimpiadi, alla exit strategy adottata con tempismo per aggredire la crisi finanziaria, all'anniversario dei sessanta anni della RPC – si delinea chiaramente l'immagine di un Paese che se da un lato ha ritrovato la sua identita', dall'altro ha innestato la ricerca delle radici sulla glorificazione di un sentimento nazionalistica che, se riversato nelle manifestazioni della societa' civile, puo' apparire aggressivo e spiritualmente vuoto. Aggressivo in quanto l'ideologia denghista – su cui si basa il consenso popolare – ha creato una forma mentis che ricorda quella ottocentesca dello zero-sum-game, in cui la Cina si deve riscattare delle umiliazioni subite in passato assumendo una nuova centralita' nello scenario internazionale attraverso, ad esempio, gli strumenti del soft power. Quindi un'ascesa pacifica, ma pur sempre una visione che pone la Terra di Mezzo alla conquista del mondo. Spiritualmente vuoto perche' la retorica nazionalistica cinese si costruisce su valori storici che la Rivoluzione Culturale ha reso contenitori, appunto, "vuoti" e colmati da una nuova ideologia basata sulla superiorita' etnica. Mi aspetto quindi dalla Cina che le voci individualiste della societa' civile, che pure esistono, riescano a trasformare non tanto il sistema politico – che ha un ruolo intoccabile nella gestione della transizione del Gigante – quanto la maggioranza dei cinesi, che si sentono ancora sudditi. Il Dragone mira al di la' della crisi ma spero miri anche a creare una politica nazionalista che assuma toni e aspetti, endogeni ed esogeni, sempre piu' rassicuranti.
di Alessandra Spalletta
alessandra.spalletta@agi.it