LE MONTAGNE RUSSE DELLO SCONTENTO POPOLARE

Shanghai, 30 set. - Bruciano di rabbia i cittadini di Shanghai e Shenzen, mentre a bruciare veramente sono le macchine della polizia accorse a sedare gli scontri scoppiati fuori dall'impianto della Jinko Solar, azienda alle porte di Haining, centro minore vicino a Shanghai (questo articolo).

 

Episodi diversi tra loro ma la ragione delle proteste che ne sono derivate è la stessa. Il conto che il paese sta pagando per il proprio sviluppo economico comincia ad essere troppo salato, almeno per alcuni. E questo non fa che alimentare un fuoco, per il momento privo di effetti distruttivi, ma che non accenna a spegnersi bensì si accresce di focolaio in focolaio, qua e là per il paese.

 

Tre episodi in poche settimane, e guarda caso interessano tutti produzioni che si vorrebbero "verdi", il piatto forte con cui il governo cinese ha presentato al mondo il suo ultimo piano quinquennale, lodandolo come il più attento alla sostenibilità ambientale mai prodotto, infarcito com'è di ingenti investimenti nelle rinnovabili e nelle nuove tecnologie.

 

Ma anche le manifatture verdi hanno un costo. Le produzioni di turbine eoliche, pannelli solari o le macchine ibride ad esempio, generano sia nella fase di estrazione di alcune sostanze fondamentali sia in quella della manifattura, scarti tossici che, se non adeguatamente smaltiti, si rivelano altamente inquinanti. E questo pare essere troppo spesso il caso cinese dove le esistenti regolamentazioni ambientali spesso non hanno ancora un potere di enforcement della norma tale da produrre effetti.

 

Il primo episodio, è quello che ha coinvolto la BYD, non un'impresa qualunque in Cina ma un colosso che in un decennio si è affermato come il secondo produttore di batterie al litio al mondo. BYD, sta per "Build your dream", 130,000 addetti sparsi per 7 impianti in tutto il paese. Una buona reputazione, per l'attenzione all'ambiente e ai lavoratori riconosciuta anche all'estero, e notevoli ambizioni che hanno portato il CEO Wang Chuanfu a dichiarare in occasione del salone dell'auto di Detroit di puntare alle emissioni zero nei propri impianti. Ambizioni che si sono infrante contro le accuse mosse dai residenti di un vicino impianto in quel di Shenzen che, dopo ripetuti appelli, si sono organizzati e hanno pubblicato in rete un comunicato che accusa l'azienda di emettere emissioni nocive.

 

Il secondo caso ha come protagonisti i contadini e operai le cui terre e case sorgono nei dintorni della Zhejiang Jinko Solar, una sussidiaria dell'omonima azienda di Hong Kong per la produzione di pannelli solari. Accusata di smaltire gli scarti tossici, soprattutto quelli provenienti dalla produzione di polisilicone, sotterrandoli, e mettendo così a repentaglio l'ecosistema e le falde acquifere circostanti, ha sollevato proteste sfociate in disordini tali da mettere a ferro e fuoco la zona per alcuni giorni, terminati poi con l'arresto di più di 40 persone.

 

Infine è toccata agli abitanti di Kangqiaotown, sobborgo di Shanghai nella zona industriale di Pudong che, in occasione delle tradizionali visite ed esami sanitari che aprono l'anno scolastico, hanno scoperto la presenza di piombo nel sangue di numerosi bambini. Tra questi anche molti stranieri che risiedono nell'area, fatto che ha forse ha dato un'eco ancora maggiore alla notizia, portando lo Shanghai Environmental Protection Bureau a sospendere la produzione di due impianti di batterie al litio dell'americana Johnson Controls e uno della Shanghai Xinmingyuan Automobile Accessory Co., quest'ultimo accusato di non possedere la licenza per trattare il piombo.

 

Quello della condotta irresponsabile delle aziende è ormai un percorso obbligato in Cina. In genere le violazioni vengono a galla dopo ripetute denunce da parte dei cosidetti "stakeholder", spesso proprio le comunità che vivono nei dintorni degli impianti in questione e che quindi ne accusano le conseguenze più dirette. La voce inizia a circolare, e il resto lo fa la rete, con i microblog, quella valanga invisibile e incontrollabile che nemmeno la censura cinese riesce ad arginare e che rischia di travolgere tutto, senza distinzione tra buono e cattivo. A quel punto, se si è fotunati e si è sollevato abbastanza polverone, gli organi preposti iniziano a muoversi, valutano i dati, fanno sopralluoghi e prendono decisioni riguardo la chiusura o meno degli impianti. In mezzo ci sta il mare costituito dei vari livelli della burocrazia cinese locale, e gli ostacoli della corruzione. Spesso il tutto si risolve in un fuoco di paglia e poco o niente cambia, in alcuni casi, quando la voce non viene ascoltata o la rete non coglie l'appello è la piazza a fare il resto come nel caso dello Zehijiang.

 

Nella loro frequenza, questi episodi danno da pensare. Ma l'idea che rappresentino l'anticamera di qualcosa di più strutturato di cui Pechino dovrebbe preoccuparsi in modo particolare, pare al momento improbabile. Eventi del genere sono piuttosto da considerare come episodi ciclici, legata alle circostanze e al contesto, e convogliati di volta in volta, con il supporto della rete verso obiettivi diversi. Il tutto è bel lontano dal rappresentare un sentimento diffuso di malcontento generale nella popolazione. A mancare infatti è una visione d'insieme, problema non solo cinese, ma che appare complicato nel paese dalla paura, quella che il blogger Han Han, in un'intervista rilasciata a Channel News Asia, ha definito: "contagiosa, anche se nessuno in Cina sa bene cosa ci sia da temere".

 

di Nicoletta Ferro

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