Adolfo Tamburello*
Napoli, 16 feb.- I Gabelentz, padre e figlio, furono due illustri sinologi dell’Ottocento. Il padre, Hans Conon von der Gabelentz (1807-1874), fu anche uomo politico, diplomatico e studioso di chiara fama nei campi della linguistica e non solo di quella orientale. Si tramanda che parlasse 24 lingue, ne conoscesse 84 e raccogliesse nella propria biblioteca personale ben 10 mila volumi! Non sembra viaggiasse molto e non fu mai in Oriente come spesso capitava agli orientalisti di quelle generazioni. Fu tuttavia specialista di lingue che andavano dai gruppi ugro-finnico, a quelli uralo-altaico, sino-tibetano, maleo-polinesiaco e perfino amerindio. Pubblicava grammatiche e studi su molte di queste lingue, a cominciare da una di mancese fin dal 1833, e in mancese pubblicò una traduzione dei “Quattro libri” (Si shu) con un lessico mancese-tedesco, così come pubblicò pure la prima edizione della Bibbia di Ulfila. Si occupò anche di siriaco.
Il figlio, Georg von der Gabelentz (1840-1893), erede dei geni paterni nella versatilità negli studi e nelle lingue, compreso il cinese, ne seguì le orme; a differenza di lui si dimise prima dal servizio civile e abbracciò una piena carriera accademica. Dagli anni del Ginnasio studiò olandese, italiano e cinese. Conseguì nel 1876 un dottorato a Dresda per la traduzione di un testo filosofico cinese, il cosmologico Taiji Tushuo di Zhou Dunyi (1017-1073), e coprì la prima cattedra di Lingue estremorientali attivata a Lipsia nel 1878. Del soggiorno a Lipsia rimane il monumento della sua Grammatica cinese di lingua classica, che pubblicò originariamente nel 1881. Passò quindi all’Università di Berlino, dove venne maggiormente interessandosi di linguistica generale.
Maestro di generazioni di orientalisti, rimangono menzionate della sua scuola figure di gran spicco della sinologia e della yamatologia tedesca traghettate al Novecento: mi limito a citare Eduard Erkes (1891-1958) e Karl Florenz (1865-1939); Erkes perché curò, fra l’altro, nel 1953 la prefazione alla ristampa del 1960 della sua più che famosa Chinesische Grammatik, mentre Florenz rimase in vita il testimone del magistero di Gabelentz sul Giappone, campo di studi ancora poco frequentato in Europa al secondo Ottocento.
Come il padre non fu neanche lui mai in Asia, ma come il padre non ebbe conoscenze solo teoriche delle lingue che studiava. Si definì lui stesso un empirico e affermava che solo un’esperienza piena e viva delle lingue poteva fare un linguista. Se per la stessa lingua cinese era quello che si direbbe oggi un classicista, ben padroneggiava anche l’“idioma nazionale” (guoyu) del tempo, rappresentato ormai dal dialetto di Pechino, che giudicava lingua povera in confronto ai dialetti di altre regioni ben più ricchi e articolati foneticamente. Si riferiva naturalmente ai toni che a Pechino non assommano a più di quattro, mentre, al Sud e a Canton arrivano a raddoppiarsi, con un numero minore di monosillabi omofoni e quindi di parole di eguale pronuncia e di significato diverso. L’impoverimento tonale poteva però essere alla base di un altro fenomeno: quello della crescita del numero delle “parole composte”, fatte di più monosillabi per duplicazione o accorpamento, per cui lo stesso cinese poteva venirsi trasformando anche sotto questo aspetto da lingua isolante in lingua agglutinante del cui processo coglieva vari indizi.
All’epoca di Gabelentz il cinese era per lo più considerato ancora come una lingua rigidamente monosillabica e isolante e, per molti, una lingua arcaica, quando non addirittura specchio di un linguaggio primitivo.
Per molti si trascinava il giudizio settecentesco del nostro Giambattista Vico che l’aveva vista, per le sue «poche lettere» e il «cantarle», una favella primigenia sopravvissuta alla Torre di Babele. Vico aveva scritto: per la confusione di lingue si venne tratto tratto a perdere la purità della lingua santa avantidiluviana. Lo che si deve intendere delle lingue de’ popoli d’Oriente, tra’ quali Sem propagò il gener umano). Aveva altresì aggiunto: Le lingue debbono aver incominciato da voci monosillabe…
Invaleva allora e a lungo il mito di un primigenio linguaggio umano, unico e universale, che aveva fatto cristallizzare l’idea di una Ursprache, una “pre-lingua” o lingua “pre-storica”, ‘madre di tutte le lingue’, prima rintracciata nell’ebraico o nel caldaico, poi nel sanscrito con la successiva e nota “primazia” del cosiddetto indoeuropeo, lingua “flessiva”, posta allora all’apice dell’evoluzione linguistica.
Oggi molto è cambiato dal tempo in cui si riteneva che i primi linguaggi fossero, diciamo, “isolanti”. Si affacciava del resto già nell’Ottocento una “correzione del tiro”: lo stesso sanscrito mostrava elementi di agglutinazione che facevano riflettere su un’anteriore fase agglutinante dell’indoeuropeo; persino il cinese mostrava derivazioni da una lingua flessiva e Gabelentz gli identificava i prodromi di un’incipiente agglutinazione.
Era in nuce la teoria, detta della “spirale” di Gabelentz, che lo studioso osservava in generale nello sviluppo di un po’ tutte le lingue (come, per esempio, ha chiari riscontri da noi nell’inglese). Gabelentz scriveva: la linea dell’evoluzione curva indietro verso il lato isolante, non sulla vecchia strada, ma quasi in parallelo. Per questo la paragono ad una spirale.
La spirale di Gabelentz. Morfologia e tipologia delle lingue (Chieti, Solfanelli, 2015, pp. 207) è il libro che presenta Lucio D’Arcangello, un libro che mi sembra risponda a una conferma della teoria dello studioso tedesco seguita a una riflessione sulla “rivoluzione” avutasi nel campo della linguistica con l’enorme vastità della documentazione raccolta su un migliaio di “lingue parlate” di nuova scoperta e studiate coi più innovativi mezzi tecnici di registrazione entrati progressivamente in uso dal secondo Novecento e con l’ausilio dell’alfabeto fonetico internazionale.
Come si sa, dagli anni Novanta, fra le lingue di nuova scoperta se ne annoverano alcune del Bhutan, con nuovi studi sulle lingue tibeto-birmane del Nepal orientale e della Cina sud-occidentale. Ne riferiscono autori come Gorge van Driem, Sun Hongkai, Dai Qingxia), mentre Edwin George Pulleyblank portava nuovi importanti contributi al profilo tibeto-birmano del cinese antico e Frederik Kortlandt proponeva un proto-sino-tibetano dotato di un elaborato sistema flessivo andato progressivamente perduto nel cinese.
Nel libro leggiamo a pp. 169-170: Il quadro cambiò sostanzialmente con Gabelentz, che vide nella successione isolamento-agglutinazione-flessione un’evoluzione continua, in cui la flessione altro non è che “agglutinazione avanzata”[…]. Un’evoluzione non lineare, rappresentata da una figura chiave dell’universo: la spirale, che diversamente dal cerchio non ha un centro e quindi non torna mai su sé stessa.[…] L’evoluzione delle lingue è ciclica e quindi mai conclusa. Con ciò cadeva ogni idea di “progresso” linguistico e i cambiamenti strutturali venivano riportati nell’ambito delle lingue particolari e dei processi in atto. Come le forme dell’universo le Sprachformen sono in perpetua trasformazione […] … una concezione sotto molti aspetti rivoluzionaria, di cui solo oggi si comincia ad apprezzare la portata.
*Adolfo Tamburello già professore ordinario di Storia e Civiltà dell'Estremo Oriente all'Università degli Studi di Napoli 'L'Orientale'.
16 febbraio 2015
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