di Adolfo Tamburello*
Napoli, 7 lug.- Le rivolte che nella seconda metà del II secolo d.C. contribuivano a destabilizzare l’impero Han (201 a.C.-220 d.C.) facevano capo a sette segrete come quelle dei Turbanti gialli e delle Cinque misure di riso permeate di ideologie di impegno sociale e comunitario. Propagandavano ideali di largo respiro soteriologico e messaggi avventistici che il taoismo religioso, abbandonate istanze anacoretiche e ascetiche, nutriva anche su influenze di una nuova religione che si affacciava in Cina: il buddhismo.
La politica imperiale Han estesa ai vari paesi asiatici aveva messo pure l’India e l’Iran in contatto più stretto con la Cina. Ambascerie dall’India erano ricevute a Luoyang nell’89 e nel 105. Relazioni ufficiali con Giava decorrevano dal 132. Monaci e pellegrini cominciavano a presentare alla Cina il buddhismo, altri il manicheismo, lo zoroastrismo, in breve le varie dottrine religiose e le culture del resto dell’Asia.
Tradizioni più o meno leggendarie legarono la presentazione del buddhismo alla Cina all’opera missionaria patrocinata da Ashoka (r. 274-232), il sovrano indiano della dinastia Maurya che destinava alla Cina reliquiari e oggetti di culto tramite suoi monaci pellegrini.
Da tempi remoti l’India irradiava la propria influenza sia attraverso le vie interne dell’Asia sia su spazi marittimi estesi oltre l’Oceano Indiano. Fonti cinesi accennano alle navi di grande stazza che gli Indiani costruivano già nell’antichità per trasportare fino a settecento uomini. Naviganti che attraversavano il Golfo del Bengala davano origine ai primi regni “indianizzati” della penisola indocinese: dal secolo I, sul basso Mekong, il regno del Funan; dal II i regni del Langkasuka, a cavallo della penisola malese, e del Lin-yi, nell’odierna area vietnamita di Hue. Erano i nuclei di una “Grande India”, che, come la Magna Grecia nel Mediterraneo, copriva poi gran parte del Sud-Est Asiatico, anche insulare, costituendo una presenza per la quale il nome dell’India si sarebbe conservato fin nelle attuali denominazioni di “Indonesia” (“Insulindia”) e di “Indocina”, quest’ultima in relazione alla convergenza di influenze indiane e cinesi nella penisola, con un versante ‘indiano’ occidentale e un versante ‘cinese’ orientale rappresentato oggi dal Vietnam. La presenza religiosa e culturale indiana si consolidava con l’elemento brahmanico e specifici culti vishnuiti e shivaiti destinati a perpetuarsi in molti stati fino all’Età moderna. Almeno dal secolo III a.C., alla componente induista seguiva la propagazione buddhista, che diventava il principale veicolo di irradiazione della cultura indiana su tutta l’area continentale dal Nepal e Tibet fino a raggiungere la Cina, la quale, a sua volta, trasmetteva numerosi elementi di eredità indiana alla Corea e al Giappone.
Elementi sporadici riscontrati nelle arti e nella letteratura cinesi tendono a indicare che un’infiltrazione avesse luogo almeno dai secoli III-II a.C. Quindi, sotto una data corrispondente al 2 d.C., un testo storico riferisce di un letterato cinese iniziato alle scritture buddhiste da un principe o ambasciatore degli Yuezhi. Infine, è tramandato che nella seconda metà del secolo I fosse tradotta in cinese una piccola raccolta di testi hinayanici (del “Piccolo Veicolo”) su un’iniziativa seguita al famoso sogno dell’imperatore Ming (Mingdi, r. 57-75 d.C.). Via di penetrazione del buddhismo in Cina era anche l’attuale Vietnam, da cui alcuni monaci si portavano alla corte del principe Yi di Chu, il quale, come precisa un editto dell’anno 65, “sacrificava al Buddha” e ospitava un certo numero di iniziati e laici, patrocinando contemporaneamente il culto per Huang Lao in cui era venerata la personificazione e la simbiosi del mitico Huangdi e del leggendario Laozi.
Nel precoce incontro fra buddhismo e taoismo, si vuole che un numero di credenti raggiungesse Luoyang e stabilisse nel 166 il culto di Huang Lao e del Buddha alla corte imperiale. Nello stesso anno, il memoriale al trono di Xiang Kai depositava la tradizione che Laozi, lasciata la Cina, fosse riapparso in India nelle vesti del Buddha per convertire i “barbari” alla propria dottrina: una rivendicazione cinese del buddhismo che rifletteva le consonanze scorte nella nuova religione col taoismo. Laozi, sul dorso di un bufalo, incamminato verso Occidente, diventava un tema caro all’agiografia dell’Estremo Oriente.
Oltre alle comuni pratiche meditative, dietetiche, respiratorie, alchemiche, che invitavano a identificare il buddhismo col magistero del Tao, appariva convergente la visione escatologica e soteriologica, basata sul superamento delle articolazioni vitali per una trascendenza dal mondo fenomenico e un’inserzione nel tao o nel nirvana, al fine di restituire il corpo spirituale all’universalità di una vita immortale. L’anacoretismo buddhista e quello taoista sublimavano entrambi la vita contemplativa e la concentrazione meditativa o estatica. Entrambe le dottrine coltivavano la fede in interventi e mediazioni di esseri ultraterreni, pratiche magiche e apotropaiche. Divinità taoiste, identificabili come ipostasi di quelle buddhiste, finivano col mutuare gli stessi nomi di Fo e Pusa. cioè dei “Buddha” e “Bodhisattva”. La simbiosi e gli scambi investivano terminologie, dottrine, liturgie, organizzazione monastica, tanto che con l’esperienza del buddhismo, anche il taoismo si strutturava in una religione ecclesiastica, con sacerdoti, culti, riti e un corpo di scritture che finivano col formare col Taocang un corrispondente del Tripitaka, il corpo dottrinario buddhista.
Il buddhismo arrivato in Cina era di genesi molto elaborata e complessa. Dopo che le comunità religiose del primitivo buddhismo indiano si erano date un’organizzazione conventuale, il ramo del cosiddetto “PiccoloVeicolo” (Hînayâna), più rigoroso nella sua ortodossia riposta su testi in lingua pali, si era propagato verso il Sud, raggiungendo l’isola di Ceylon (l’odierno Sri Lanka) per irradiarsi poi nel Sud-Est Asiatico. Consolidava l’istituzione conventuale facendo dei monaci i privilegiati sulla via della “liberazione”.
Collateralmente il “Grande Veicolo” (Mahayana), che conveniva che tutti, non solo i monaci, potessero incamminarsi sulla strada che porta allo stato del Buddha, portava la predicazione buddhista nell’Asia centrale.
I testi disciplinari del vinaya prescrivevano una dieta rigidamente vegetariana e l’obbligo per i monaci di indossare vesti di cotone, condizioni che avrebbero precluso il buddhismo alle popolazioni centro-asiatiche di allevatori e cacciatori. Il clero mahayanico scendeva a compromessi permettendo vesti di lana e consentendo diete carnee; abrogava altresì il divieto di praticare le arti mediche e dava ai monaci la facoltà di mettere la propria opera al servizio delle comunità. Dalla gestione di ospedali e dispensari farmaceutici i prelati passavano a quella di aziende agricole e organizzazioni commerciali e finanziarie con servizi di depositi e prestiti. Il buddhismo primitivo interdiceva tassativamente ai monaci di maneggiare oro e argento: la trasformazione che ne seguiva vedeva il clero impegnato in sistematiche attività sia di beneficienza e sia di lucro, con tesaurizzazioni anche attraverso investimenti in arti, le quali davano a monasteri e templi un’espressione monumentale e di sfarzo.
Dopo essersi insediato nell’India nord-occidentale e nel Kashmir, il Mahayana aveva crescente diffusione nelle regioni del Nord-Ovest (Pakistan occidentale e Afghanistan odierni), dove entrava in contatto con la religiosità iranica e le concezioni religiose e filosofiche della classicità greco-romana che l’arricchivano di contenuti e di un pantheon. Quindi. presso le grandi oasi lungo le vie carovaniere della seta, nei centri monastici della cosiddetta Serindia erano compiute traduzioni di testi sanscriti della letteratura canonica nelle lingue indoeuropee che vi erano allora parlate, da quella sogdiana a quelle tocariche del kucheano, dell’agneano, del khotanese. Le esplorazioni della fine dell’Ottocento cominciarono a restituirne preziose testimonianze in manoscritti, mentre l’archeologia successiva riportava alla luce monumenti e tesori di grandi centri monastici come quelli del Khotan, di Kashgar, Kucha, Karashahr, Turfan. Al contatto di altre religioni diffuse all’epoca nell’Asia centrale, il buddhismo assorbiva ulteriori elementi dottrinari e liturgici dal manicheismo, dal cristianesimo nestoriano ecc. Questo era il filone principale del buddhismo che cominciava ad arrivare in Cina dai secoli II-III d. C.
*Adolfo Tamburello già professore ordinario di Storia e Civiltà dell'Estremo Oriente all'Università degli Studi di Napoli 'L'Orientale'.
7 luglio 2014
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