Milano, 30 dic. - Bocciata senza riserve. La nuova regola (di sapore ultranazionalista) riguardante il divieto di usare termini e abbreviazioni inglesi nelle pubblicazioni in lingua cinese, annunciata il 20 dicembre dall'Amministrazione generale per la stampa e l'editoria, ha suscitato reazioni negative tra i commentatori che ne hanno parlato sui giornali del Paese. Nel presentare la norma, l'organismo statale motivava la novità affermando che la "purezza" della lingua cinese è in pericolo e che la commistione con termini tratti dall'inglese provoca confusione nei lettori. Gli editoriali pubblicati sull'argomento smontano questo ragionamento pezzo per pezzo, affermando che togliere certi acronimi inglesi causerebbe maggiore confusione e in generale mettendo in discussione l'efficacia di un simile provvedimento.
Dalle pagine del Jinghua Shibao, l'editorialista Zhang Tie invita a domandarsi innanzi tutto per quale motivo sia diventata abitudine diffusa mescolare termini inglesi in testi in cinese: «Le ragioni sono molte - scrive Zhang -, ma una delle più importanti è che lo richiede la comunicazione stessa. Il mondo corre in avanti dando vita a sempre nuovi concetti, ma perché possano nascere parole adeguate alle novità è necessario il sedimentare del tempo. La morfologia del cinese a volte arriva in ritardo rispetto alle evoluzioni del mondo, soprattutto nel caso di tecnologie all'avanguardia».
Zhang prende ad esempio la rapida evoluzione dei supporti per la riproduzione audio-video (dai cd ai dvd, dagli mp3 agli mp5): «Se il nostro sistema linguistico non è in grado di produrre parole nuove con la stessa velocità con cui nascono le novità tecnologiche, è inevitabile che insieme ai nuovi prodotti il cinese importi anche nuovi termini. Alcune parole o abbreviazioni sono, di fatto, la porta di ingresso per utilizzare determinati prodotti. Per accogliere certi concetti, bisogna accogliere questi termini».
Naturalmente, ammette l'editorialista, l'uso di parole o abbreviazioni troppo specifiche può rendere difficile la comprensione: «Questa appropriazione di termini stranieri può a volte avere effetti negativi sulla comunicazione, diventando un ostacolo all'interazione. Chi non conosce abbreviazioni come 3G, GPS, CPI, ad esempio, rischia di perdersi davanti ad esse».
Zhang Tie invita quindi a cercare una via di mezzo che non porti al bando di qualsiasi termine inglese ma che, allo stesso tempo, non tenda all'estremo opposto: «Forse il metodo più efficace sarebbe quello di guidare l'ingresso delle parole straniere nella comunicazione in cinese in modo mirato, trasformando il divieto in una proposta e consultando specialisti per tradurre concetti complicati in cinese seguendo canoni di correttezza, efficacia e bellezza estetica». Di certo, ribadisce Zhang, non è possibile chiudersi completamente alle influenze esterne: «Il mondo è già cambiato. La scrittura e la lingua di ogni nazione, per mantenersi in vita, devono essere sistemi aperti e compatibili con gli altri. Una regola morta non può controllare la vitalità del linguaggio».
Sul Beijing Chenbao, che il 23 dicembre pubblica un assemblaggio di commenti sull'argomento scritti da diversi editorialisti, Wang Yanling spiega perché l'uso di termini stranieri non mette a rischio la purezza o la natura del cinese: «Per difendere la purezza e la peculiarità del cinese, per prima cosa bisogna sapere in cosa esse consistono. Ebbene, la natura originale del cinese sta proprio nella sua capacità di assimilazione. […] Anche se il cinese vuole mantenere alcuni suoi "prodotti" peculiari, questo non significa che non possa contemporaneamente usare alcuni "beni" di importazione».
D'altra parte, scrive Wang, il senso di una lingua sta nella sua efficacia comunicativa. «Se davvero il cinese dovesse tornare alla sua purezza originaria, allora dovremmo ricominciare a usare i caratteri non semplificati e i termini più arcaici, ma questo sarebbe ben poco conveniente dal punto di vista della comunicazione». Ecco perché «possiamo sì invitare a limitare abbreviazioni e termini poco chiari nelle pubblicazioni in cinese, ma non ha senso elevare un divieto. Proibire al cinese di mescolarsi con altre lingue significa adottare una "politica della porta chiusa". Bisogna invece permettere alle persone di scrivere e parlare nel modo che a loro risulta più comodo e facile. Questo secondo me è il metodo migliore per preservare la purezza e le caratteristiche peculiari del cinese».
Sempre sul Beijing Chenbao Long Minfei riflette invece su quanti libri andrebbero banditi se si dovesse applicare la nuova norma. «Molti nomi e termini tecnici che oggi usiamo nelle scienze sociali e umane sono importati dal giapponese o da altre lingue - spiega Long -. Parole come "organizzazione", "regole", "economia", "impresa", "funzionari" non si trovano nel cinese antico, oppure non avevano il significato che hanno assunto oggi. Se dovessimo prendere sul serio l'idea di rigettare questi termini, però, moltissimi libri dovrebbero essere banditi. Con ricadute pessime sui nostri scambi culturali e accademici con il resto del mondo».
di Emma Lupano
Emma Lupano, giornalista professionista e dottoranda di ricerca sui media cinesi, cura per AgiChina24 una rassegna stampa bisettimanale volta a cogliere pareri autorevoli di opinionisti cinesi in merito a temi che si ritengono di particolare interesse per i nostri lettori
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