di Adolfo Tamburello*
Napoli, 6 ott.- Nel 1469 erano cent’anni che i Ming stavano sul trono. Regnava allora Chenghua (1464-1487), un sovrano che passava alla storia senza particolari benemerenze. Aveva trascorso gli anni dell’infanzia col padre Zhengtong prima catturato dai Mongoli e poi ai domiciliari del fratello Jingtai che lo diseredava e doveva aspettare il secondo regno del padre (Tianshun) per succedergli alla sua morte sedicenne. Non era proprio un imperatore bambino, come lo era stato il padre messo sul trono a sette-otto anni, ma sempre in un’età in cui cadeva facilmente succube di infidi consiglieri, il padre dell’eunuco Wang Zhen che era stato poi giustiziato, lui oltre che di eunuchi di una terribile donna che gli metteva a morte figli e concubine.
Sotto il suo regno era completata la definitiva cintura difensiva della Grande Muraglia con le ultime fortificazioni a Sud dell’Ordos, e nella definitiva rinuncia della dinastia ad assicurare alla stessa Pechino un vasto retroterra “cinese”, mentre in Mongolia si ricostituiva la potenza dei Tatari con Dayan Khan (1464) che li riunificava in una forte compagine militare a spese ora degli Oirati. Il dominio su aree ed etnie mongole sempre più vaste ereditato dal nipote Altan Khan (1507-1582) avrebbe dato filo da torcere ai Ming nel corso del secolo seguente.
Erede e successore di Chenghua era Zhu Youcheng (1470-1505), regnante col nome dell’era di Hongzhi (“Governo esteso”, 1487-1505), che chiudeva il nostro XV secolo e portava la dinastia Ming a quello successivo. Se Hongzhi era veramente figlio di Chenghua, si era salvato per miracolo dalle stragi della consorte favorita del padre. Chenghua lo riconosceva nel 1475 come figlio ed erede quando aveva cinque anni lasciandogli il trono nel 1487.
Forse scottato dalla personale esperienza, Hongzhi disdegnò ufficialmente l’harem ed ebbe dalla moglie due soli figli, uno dei quali morì ancora in fasce e l’altro gli successe nel 1505 col nome di regno di Zhengde (r. 1505-1521). Hongzhi è pertanto ricordato come l’unico sovrano monogamo della Cina, con il gineceo inutilizzato e gli eunuchi disoccupati in quanto a intrighi almeno con lui, Costoro dal dopo Hongwu, morto nel 1399, erano stati fatti carico di tutte o quasi le malversazioni e i crimini più ignobili che il paese avesse mai conosciuto, e la dinastia si era salvata a stento in varie occasioni, fin da quella in cui Xuande (r. 1425-1435) aveva spento in troppo sangue la rivolta di un fratello del padre.
Uomini in maggioranza del Nord con ascendenze non cinesi, i memorialisti della Cina centro-meridionale li descrivevano inguaribilmente sordi ai valori civili della sinicità, se non per i soli aspetti legati alla pietà filiale e al culto degli antenati cui erano accesamente interessati per le loro adozioni. Siamo e dobbiamo rimanere scettici che fosse dovuto unicamente a loro e in genere agli uomini del Nord lo spirito di sopraffazione che effettivamente si era allargato a macchia d’olio in tutta la Cina anche con stupri, aborti, infanticidi o esposizione neonatali in un crudo deprezzamento dei valori della vita umana. Alcuni vorrebbero che una causa almeno concomitante fosse l’intervenuto allentamento delle remore religiose nei ceti alti in nome di una falsata visione della vita su una fraintesa interpretazione della laicità. Questa la dinastia l’era venuta effettivamente promuovendo con la minor leva sulle istituzioni ecclesiastiche per un’indipendenza del temporale dal sacro sia pure vanamente confidata. Anche la violenza di Stato, accresciuta dalle pene legalizzate di maggiorate bastonature, fustigazioni e torture, era attribuita a un irradiamento a tutta la Cina dell’eredità barbarica del settentrione da poco inglobato, Lo stesso Yongle aveva preso misure per “demongolizzare” il Nord e annodarlo all’etica della classicità cinese.
Era arrivato dunque finalmente un Hongzhi. Descritto come un uomo di austera e magnanima educazione confuciana, teneva un regno annoverato come l’età argentea dei Ming dopo quella aurea di Hongwu e Yongle. Il nostro Quattrocento si chiudeva insomma con le più rosee prospettive di longevità per la dinastia regnante.
Sarebbe difficile tentare un conguaglio del secolo. I nostri storici rilevano la superiorità che la marineria Ming conservava nei primi decenni sull’Europa e la priorità con la quale compiva le grandi navigazioni oceaniche, quelle di Zhenghe (1405-1433), pur mancando di un Enrico il Navigatore e di tanti scopritori e conquistatori che tenessero poi la Cina al passo con la storia. Si tratta naturalmente di una valutazione comparativa priva di senso, perché Yongle e poi Xuande non avevano mandato Zhenghe e altri alla scoperta di nuove terre, ma per viaggi di perlustrazione anche contro la pirateria e per stringere contatti politici e diplomatici con paesi della cui esistenza erano al corrente. Quando i successori giudicarono quei rapporti più costosi che proficui li lasciarono perdere senza pianificare aggressioni e conquiste dei loro domini.
Finita quella che è stata chiamato l’effimera talassocrazia cinese, la marina da guerra rimaneva attiva come guardia costiera e navigazioni interne per interventi militari e servizi di trasporti e comunicazioni, mentre parte della flotta armata per i viaggi era smantellata e ceduta lucrosamente. In specie le lussuose navi da crociera passavano sotto la gestione di Lloyd con partecipazioni o interessi anche stranieri.
Dalla nuova marina mercantile il governo si attendeva i proventi dai porti, i diritti doganali sull’import-export, le tasse sui viaggi dei passeggeri per la massima parte mercanti, una forma di privatizzazione che precorreva successivi interventi del secolo successivo per una destatalizzazione di un’economia a rinforzo del Tesoro che i sovrani tentavano di rimpinguare con una vana lotta alla corruzione rimasta dilagante fra eunuchi di corte e alta e bassa burocrazia.
Vigili soprattutto sulle condizioni di vita del contadinato che spesso abbandonava i suoli per l’insostenibile carico fiscale, ottenevano talora di alleggerirlo e si facevano a livello popolare un nome onorato, riconosciutogli pure dai Mongoli e dai Jurchen quando e se avevano un atteggiamento fermo con mercati aperti senza veti di vendite, per esempio, di granaglie e di tè.
La permanente guardia alle frontiere manteneva alta la dislocazione degli avamposti con corpi anche di truppe reclutate fra i gruppi tribali delle zone confinanti e naturalmente con l’effetto di una progressiva sinizzazione dell’area mongola e jurchen con quest’ultima che si intensificava nel Liaodong e copriva un po’ tutta l’odierna Manciuria. All’interno della Cina il mercenariato era ripreso con gli arruolamenti dei minzhuang cui ricorrevano le province, mentre a livelli locali erano armate milizie (tubing) per l’ordine pubblico.
Il risparmio sulla spesa bellica spingeva intanto a cedere molte terre anche delle colonie militari a ricchi mercanti, e l’alienazione di beni della dinastia o dello Stato (difficili da distinguere gli uni dagli altri) procedeva con la dismissione di molte manifatture imperiali e la riduzione della manodopera dipendente dal Ministero dei Lavori Pubblici; opere pubbliche erano appaltate a privati e molto lavoro liberato dalle corvè, dal 1485 previo pagamento di tasse in denaro e soprattutto in argento in verghe.
Pechino soffriva sempre più un’arsura d’argento. Le banconote rivolute fortemente da Hongwu avevano avuto difficoltosa circolazione una volta rese inconvertibili in argento, oro o moneta metallica e avevano subìto un’inflazione del 70% fin dai tempi di Yongle. La moneta in rame aveva avuto nuove sistematiche emissioni dal 1425 e tornava tra l’altro a fare la fortuna del Giappone. Per le transazioni di rilievo e gli oneri fiscali andava presto per la maggiore l’argento in verghe, con le quali le province versavano i loro tributi dal 1465, e li versavano i salinatori dal 1475. Pure ai contadini era presto consentito l’esonero da alcune corvè previi versamenti in argento, mentre in pagamenti in argento o comunque in denaro si generalizzavano dal 1485 per le esenzioni dalle corvè di molte categorie del mondo imprenditoriale, artigianale e artistico.
La “modernità” delle riforme, che mandava all’aria l’assetto istituzionale voluto da Hongwu, contava ovviamente su congrue quanto utopiche entrate fiscali e basse quote d’evasione e contrabbando: presto detto, su onesti sudditi contribuenti e una burocrazia dai tollerabili margini di corruzione (fra l’altro calcolati sotto il 30%).
Sovrani e alta burocrazia fedele al Trono con immancabili consiglieri di merito si muovevano in modo aperto contro la corruzione e riscuotevano il buon giudizio dei censori e memorialisti, ma l’efficacia dei loro interventi si vanificava ai livelli degli altri alti e bassi quadri burocratici spesso per altro legati a filo doppio e sempre con gli eunuchi e spesso loro succubi di ritorsioni.
Tutto sembrava comunque lasciasse ben sperare con la vita dinamica e alacre dei centri urbani in grossa crescita numerica lontani dalla capitale; soprattutto quelli delle città portuali pullulanti di indaffarati cittadini di vario ceto a stretto braccio (si fa per dire) gli uni degli altri: ricchi possidenti assenti dalle loro terre, imprenditori, mercanti, medici, artisti, artigiani, legati da attività anche in concerto e via via trasformati in liberi professionisti: fra loro i “letterati”, coi diplomi di vario grado che li liberavano a tempo da oneri fiscali ed eventuali pene corporali, solo tormentati dalle scadenze degli esami progressivi o dai salassi monetari come titolo per acquisirli.
6 ottobre 2015
*Adolfo Tamburello già professore ordinario di Storia e Civiltà dell'Estremo Oriente all'Università degli Studi di Napoli 'L'Orientale'.
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